Attesa

Sarà capitato anche a voi nell’arco della vostra esistenza di vivere un’attesa, di aspettare il giorno di un evento importante, l’esito di un esame, la riposta a un messaggio o a una email professionale, di amore o di amicizia.

Mi sono accorta, però, che il nostro modo di porci nei confronti di un’attesa cambia con il mutare dell’età. Più passano gli anni e più non riusciamo a gestirla questa attesa.

Da bambini l’attesa è fermento, eccitazione, adrenalina, è il momento prima di una cosa importante e sconosciuta a cui deve essere assegnato un valore nuovo. L’attesa per una gita toglieva il sonno per l’eccitazione, era spazio pieno di gioia e di aspettative cariche di interrogativi felici. L’attesa per un’interrogazione portava con sé quel senso di vertigine nello stomaco, a cui anni dopo avremmo dato il nome di ansia, ma che da piccoli aveva il sapore di sfida e di speranza. Da bambini non ci si preoccupava di andare di fretta, ci si crogiolava nel tempo, in quel tempo sospeso e carico di attese rumorose.

Con il passare degli anni, da adulti, la prospettiva inizia a cambiare, dimentichiamo come si aspetta, si va di fretta, talmente di fretta, che l’attesa diventa sinonimo di nervosismo incontrollato. Siamo preda di una società che va veloce, che non si ferma e vuole, pretende, tutto e subito.

Così di quella bellezza di avere a disposizione un tempo senza tempo non ci resta nemmeno più un ricordo sbiadito. 

Le attese da adulti si trasformano in navi nemiche piene di paura e incertezze, meglio non farle attraccare.

Ma come mai aspettare ci spaventa così tanto?

Da un lato l’attesa ci dà l’occasione di fermarci a riflettere davvero e prenderci del tempo per noi e sappiamo quanto, a volte, sia spaventoso il tempo per noi, quanto restare a contemplare la nostra vita sia come restare nudi davanti a uno specchio, e non sempre l’immagine che questo ci rimanda lo ci piace.

Quindi meglio non pensare, andare di fretta e saturare i pensieri con mille impegni, presi appositamente e con lo scopo di eliminare lo spazio vuoto da dedicarsi. Il Covid, però, ci ha messo alla prova e ancora ci tiene in balìa dell’attesa.

Ci ha obbligato ad attendere senza avere a disposizione una data di scadenza, e molti in quell’attesa si sono smarriti, non l’hanno saputa gestire, capire, contestualizzare. Ne sono stati risucchiati come in un buco nero, e si sono sentiti schiacciati, sopraffatti. Altri invece, con il ricordo ancora fresco dell’attese da fanciulli, sono riusciti a trovare un modo per saziare la fame di quella attesa forzata e improvvisa, senza diventarne ostaggio, ma sfruttandone l’enorme potenziale, la potenza di avere tempo, tanto, tantissimo tempo per vivere e non più per sopravvivere.

Per tutto il resto dei miei sbagli
Libro di Camilla Boniardi

Camilla Boniardi nel suo libro d’esordio Per tutto il resto dei miei sbagli scrive: “…se con le attese non ci avevo mai stretto una vera amicizia, era perché la loro natura mi ricordava il paradosso di Schödinger. Nella loro dimensione sospesa, infatti, le attese possono celare grandi felicità come profonde tristezze, tutte possibilmente vere nello stesso momento e a me questa incertezza non è che sia mai andata molto a genio. Con il tempo però ho cambiato idea, ho pensato che un po’ mi piace abitare nella scatola del gatto, dove le cose ancora fluttuano in potenza, sgravate dal peso dell’atto.”

Ed è proprio così che dovrebbe accadere, perché saper aspettare significa incontrarsi con se stessi, fermarsi, riscoprirsi. Invece non sempre con il passare del tempo ci si relaziona così bene con se stessi.

Le incursioni dentro di noi, il ritrovato senso di ascolto, sono cose positive se sei disposto a fare di quell’attesa uno spazio conoscitivo profondo, ma se hai i lupi dentro come diceva Jim Morrison l’attesa, allora, ti terrorizza. Restare del tempo da soli con noi stessi può voler dire fare i conti con storie sospese, con traumi non rimossi, con fantasmi che ancora spaventano.

Fermiamoci ogni tanto e non perché c’è una pandemia globale che ce lo impone, ma perché goderci l’attesa ci fa bene, ci insegna a gestire la nostra emotività, a riconoscere le nostre emozioni. E sapere ciò che ci accade dentro, può diventare un momento di crescita personale e di aiuto nella relazione con l’altro. Vi siete mai chiesti con quante cose oltre al lavoro si possa riempiere un vuoto lasciato da un’attesa? Con tantissime cose, e di solito sono tutte cose per cui diciamo di non trovare mai tempo nella nostra vita: una playlist su un dispositivo elettronico con la musica preferita e un calice di vino insieme ad una persona per noi importante, un buon libro, il volontariato, una nuova serie tv, giocare con i figli, una passeggiata, una telefonata ad un amico/a per cui non si ha mai tempo e tanto, tantissimo altro.

La strategia di ingannare l’attesa, perché di strategia si tratta, diventa movimento verso se stessi. E quel movimento può diventare una sana abitudine.

Il Covid ci ha messo del suo per farci riabituare alle attese, ma non auguriamoci un’altra pandemia per prenderci il nostro spazio vuoto da riempiere, facciamolo continuamente questo atto rieducativo, che ci porta a godere dei tempi sospesi, di quelle vigilie impreviste fuori dal calendario delle feste. È da quando siamo nella pancia che viviamo l’attesa, dovremmo averla interiorizzata, dovremmo vederla come una nostra cara vecchia amica che ritorna a ricordarci di quante cose diverse siamo fatti e siamo ricchi.

Francesca Pappacena, Psicologa, attivista per i diritti civili, Referente Regionale Croce Rossa LGBT, discriminazioni e violenze. Scrive poesie, brevi racconti senza finale e si interroga su tutto

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