Quando avevo vent’anni ho lasciato la mia casa in Calabria per cercare lavoro a Milano. Negli ultimi due anni ho vissuto lo strazio di vedere mio padre deperire a causa dell’Alzheimer e mia madre indebolirsi sempre di più, fino alla loro morte, uno a un mese di distanza dall’altro. È stato un periodo molto difficile. Non sono riuscita a prendermi cura dei miei genitori a causa del mio lavoro. Questo mi fa stare molto male e mi fa sentire in colpa. Scendevo in Calabria quando potevo, ma a curarsi di loro è sempre stata mia sorella Lucia (…).
(Storia di Giovanna, da La finestra sulla mente – Santagostino Psiche).
Il dolore, soprattutto quando riferito alla sofferenza emotiva, non è solo di chi lo vive sulla propria persona, ma anche di chi, quotidianamente, accudisce e assiste la persona che soffre.
Il burden del caregiver (termine mutuato dall’inglese: carico, peso, fardello di chi, in maniera responsabile e volontariamente, aiuta una persona poco o per nulla autosufficiente) è la risposta allo stress emotivo che viene percepito da chi si prende cura di un malato, assistendolo e supportandolo nella quotidianità.
I disturbi percepiti dal caregiver che sperimenta il burden possono essere psicologici, fisici, comportamentali e comprendere insonnia, ansia, rabbia, disturbi gastrointestinali, ipertensione.
Il burden può avere intensità diversa, strettamente correlata alla gravità della patologia dell’assistito e, nelle forme più importanti, può sfociare nella sindrome del burnout dalla quale si differenzia solo in maniera marginale e sfumata.
I due studiosi americani Mark Novak e Carol Guest hanno individuato cinque dimensioni che caratterizzano il burden:
Carico oggettivo, ossia il tempo materiale che il caregiver dedica alla cura del familiare
Carico evolutivo, ossia la sensazione di essere esclusi dalle opportunità che hanno i coetanei a causa della mancanza di tempo
Carico sociale, ossia il conflitto tra senso del dovere sul lavoro e senso del dovere familiare
Carico fisico, ossia la fatica impiegata per assistere una persona non autonoma o con bassa autonomia
Carico emotivo, ossia i sentimenti spesso di imbarazzo provocati da comportamenti particolari del familiare assistito (come, ad es, nel caso di patologie neurologiche).
Ho visto mia sorella Lucia consumarsi e perdere la salute pur di garantire un’assistenza di qualità ai nostri e pur di non lasciarli nelle mani di estranei. Credo che abbia risentito più di tutti del peso di queste cure. Oggi è molto cambiata, è dimagrita molto e sembra depressa. Sembra una cosa brutta da dire, ma dopo che anche mamma se n’è andata la vedo più serena. Forse perché finalmente può riappropriarsi della sua vita”.
(Storia di Giovanna, da La finestra sulla mente – Santagostino Psiche).

Prevenire il burden non è semplice e neanche esiste un’unica strategia per evitare di cadere nel suo vortice.
Tra i fattori che potrebbero garantire al caregiver una migliore resistenza alla sofferenza e all’angoscia causati da un carico emotivo troppo forte ci sono la consapevolezza (occorre essere consapevoli del peso che comporta il prendersi cura) e il sostegno sociale, grazie al quale né al paziente stesso né a chi lo assiste deve succedere di sentirsi abbandonato e solo; occorre, inoltre, che il caregiver sappia che esiste questa particolare forma di sofferenza emotiva e che, quando si accorge di non riuscire a gestire da solo la situazione, cerchi e, soprattutto accetti, l’aiuto degli altri.
Il caregiver soffre due volte, per sé stesso e per il congiunto che assiste e che deve reggere e sorreggere: deve accogliere la sofferenza di entrambi, imparando a nascondere la propria, perché, a differenza di quanto accade per la persona cara di cui si prende cura, difficilmente ci sarà qualcuno pronto a condividerne il dolore e a percepirlo come se in qualche modo fosse anche, e spesso soprattutto, il suo.

Rosa Maria Bevilacqua, Sociologa, A.O.R.N. “San Giuseppe Moscati”- Avellino, Delegata alla Sanità ASI (Associazione Sociologi Italiani)