Cieco di guerra ‘45

È una lacrima il mondo

che pietoso l’infinito raccoglie

nel suo nulla.”

(Carlo Borsani)

È il 23 aprile del 1944.

Il clima che si respira è quello della guerra civile che infuria nel nord dell’Italia. Lui è un uomo giovane, calvo, in divisa. Porta un grosso paio di occhiali neri. E’ cieco e parla a una folla composta prevalentemente da giovani militari, da reduci, da donne del popolo che vivono le quotidiane sofferenze della guerra, da passanti curiosi.

Ricorda, con parole semplici che parlano al cuore, quelli che hanno perso la vita sui campi di battaglia, nel deserto, nelle steppe russe, in Grecia. Poi parla di Mazzini, il padre della Patria, il profeta dell’ideale repubblicano e paragona il passato al presente, alla ‘morte della Patria’, al dramma dell’8 settembre che ha diviso i cuori e le coscienze, alla necessità di riprendersi per andare avanti, senza rinnegare il passato, ma cercando nuove sintesi e nuove forme di convivenza per il futuro. Scende dal palco con l’aiuto di altri mutilati di guerra e viene accompagnato verso i militari schierati in piazza. Lui, come solo chi non vede più riesce a fare, tocca timidamente quei visi di soldati, quegli elmetti, quelle armi e la gente si commuove vedendolo baciare una bandiera che gli viene messa con delicatezza tra le mani.

Lui è Carlo Borsani, cieco e mutilato di guerra, medaglia d’oro al valor militare ed intuisce già quale potrebbe essere il suo destino, ma certo non sa che morirà giusto un anno dopo, nelle giornate d’aprile del 1945.

Carlo nasce a Legnano nell’agosto del 1917. Suo padre era un operaio della Meccanica Franco Tosi, un brav’uomo di fede socialista che morì prematuramente in un incidente sul lavoro, uno dei tanti in un’Italia che, impegnata nella Grande Guerra, si avviava verso una stagione di disordini, di incertezze e di gravi crisi istituzionali. La morte sul lavoro del genitore toccò profondamente la sensibilità del ragazzo che visse un’infanzia in condizioni di autentica povertà e tali da convincerlo, sin da giovanissimo, a fare della difesa dei più deboli l’impegno costante di tutta una vita.

Col sacrificio grande della mamma Maria, riuscì a conseguire la maturità e poi ad iscriversi alla facoltà di lettere della Statale di Milano. Assolse intanto gli obblighi di leva frequentando il corso Allievi Ufficiali di complemento a Salerno e fu assegnato, con il grado di sottotenente, a Milano per il servizio di prima nomina e poi, con l’entrata in guerra dell’Italia nel giugno del ‘40, fu destinato dapprima alla zona di confine con la Francia e successivamente al fronte greco-albanese. E proprio in Grecia, nonostante le precedenti ferite riportate in combattimento, nella notte tra l’8 ed il 9 marzo del 1941, mentre andava nuovamente all’attacco con il suo reparto, fu ferito ancora una volta alle gambe ed infine dilaniato da una bomba di mortaio e creduto morto. Solo un lieve improvviso movimento di una mano fu la sua salvezza, nella generale confusione del momento. Curato, riuscì miracolosamente a sopravvivere, ma perse irrimediabilmente la vista.

Per il valore e lo spirito di sacrificio dimostrati sul campo di battaglia in quelle giornate di marzo, Carlo Borsani fu insignito della medaglia d’oro al valor militare e rientrato in Patria, da mutilato e grande invalido di guerra, ebbe la forza di proseguire negli studi interrotti, di dedicarsi con passione alla poesia, di pubblicare alcune opere e di sposarsi con la giovane Franca Longhitano, dalla quale ebbe due figli, Raffaella e Carlo, che nascerà dopo la sua morte.

Dopo la fatidica data dell’8 settembre del ’43 ed alcuni giorni trascorsi tra l’indecisione e l’incertezza per le sorti della Nazione, decise di aderire, come tanti giovani ex combattenti, alla neonata Repubblica Sociale Italiana, dedicandosi al giornalismo, parlando alla radio e nelle piazze, ottenendo la direzione di un giornale del Nord (primo direttore non vedente) e curando anche il periodico dei mutilati, dal titolo emblematico de “La Vittoria”.

Il suo nome diventa una bandiera per gli ambienti ‘moderati’ di Salò. È un uomo buono che la menomazione e la consapevolezza della caducità estrema delle cose hanno reso sensibile al dolore ed alla sofferenza degli uomini e della Patria tutta. È un buono che si batte contro l’incalzare di eventi terribili e l’estremizzazione di un conflitto che scivola sempre più verso una sanguinosa guerra fratricida. Si adopera su ogni fronte possibile, ricoprendo l’incarico di presidente dell’Associazione Nazionale Mutilati ed Invalidi di Guerra e prodigandosi con successo anche perché venisse estesa l’erogazione della pensione a tutti gli Invalidi del lavoro.

La sua formazione culturale ed umana, la sua profonda onestà intellettuale, lo portarono a cercare costantemente il dialogo con gli oppositori di quel Regime in cui pure svolgeva un ruolo attivo, ma spesso inascoltato, di sprone e di stimolo.

Ma gli eventi incalzano…

Nei giorni successivi al 25 aprile del ’45, Borsani decide di rimanere al suo posto. Rimane all’Istituto Oftalmico di Milano, da cui viene prelevato, a seguito di una delazione, da un gruppo partigiano comunista che lo rinchiude, insieme ad altri, nei sotterranei del palazzo di Giustizia. Da lì viene condotto nelle scuole di Viale Romagna. A un compagno di cella che chiedeva a coloro che lo stavano prelevando di fargli portare con sé i propri effetti personali, fu risposto con un secco no e con un commento raggelante: ‘tanto, dove sta per andare, non servono’. Da viale Romagna viene portato in Piazzale Susa e ucciso con tre colpi di pistola alla nuca. Intuendo la fine imminente, Carlo riesce a sfilare dal portafoglio la scarpina di lana della sua primogenita Raffaella ed a stringerla nel pugno della mano, sino alla fine. Il corpo viene poi caricato su un carro della spazzatura ed esposto per le strade con al collo un cartello con la scritta ‘ex medaglia d’oro’.

Il poeta Carlo Borsani, diventava così vittima sacrificale proprio di quell’odio e di quello spirito di vendetta che lui, cieco di guerra, era riuscito paradossalmente a vedere e a sentire fisicamente meglio e più degli altri.

Nel 2005 un articolo apparso su un noto quotidiano nazionale raccontò dell’iniziativa volta a ricordare Carlo Borsani con un albero nel ‘giardino dei Giusti’ che sorge a San Siro, per riconoscergli l’impegno profuso nel salvare numerose persone, anche di religione ebraica, dalla deportazione, perché, come ebbe a dire un noto  giornalista e storico antifascista, ‘il merito di una persona che ha agito indipendentemente dal proprio credo politico va riconosciuto, io credo che a San Siro si possa piantare un albero per ricordare ”il fascista” Carlo Borsani. Perché i buoni non stanno da una parte sola e chi non lo riconosce è solo accecato dall’ideologia”,

Invece, non se ne fece nulla. Ci vuole fortuna anche a morire ammazzati…

La sua medaglia d’oro, che portava sul petto nel momento in cui fu assassinato, è scomparsa insieme al portafoglio dove Carlo custodiva quella scarpina di lana a lui tanto cara.

‘Non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo. Ciechi che pur vedendo, non vedono’

(Josè Saramago)

Michele Chiodi, già dirigente di istituti finanziari, collabora con periodici e associazioni culturali.

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