Già nel V secolo a.C. Ippocrate, padre della Medicina, aveva individuato quegli elementi fondamentali dell’operare del medico: il tocco, il rimedio, la parola.
Circa cinque secoli dopo il filosofo romano Seneca, nella sua opera De Beneficiis, scriveva:
Se il medico non fa altro che tastare il polso e considerarmi uno dei suoi tanti pazienti, prescrivendomi freddamente ciò che devo fare, io sono un suo cliente. Se invece si preoccupa per la mia salute, mi ascolta e mi assiste con cura, allora sono in debito con lui, come medico e come amico.
Nel mondo moderno, progressi e scoperte in campo scientifico e tecnologico hanno fornito strumenti potentissimi ai medici, formando la cosiddetta Precision Medicine, la Medicina di Precisione che non ha però favorito il rapporto con il paziente, sempre più distaccato e frettoloso.
La dinamica medico-paziente si è però evoluta negli anni, beneficiando anche del prezioso contributo della Medicina Narrativa e di diversi scienziati, in particolare il medico statunitense Rita Charon, tra le prime ad affiancare alla EBM–Evidence Based Medicine (medicina basata sull’evidenza) la NBM–Narrative Based Medicine (medicina basata sulla narrazione), per la costruzione di una relazione terapeutica nel processo di Cura.
Nel corso del patient journey (viaggio del paziente), la capacità del medico di creare una buona relazione e di comunicare con efficacia è fondamentale per influenzare positivamente la prognosi, ma anche la compliance(aderenza alla terapia), che in base a recenti studi è modificata o personalizzata fra il 30% e il 50% dei pazienti.
Una buona comunicazione medico-paziente influisce quindi sia sull’efficacia che sull’efficienza della cura, con ripercussioni positive sulla qualità di vita dei pazienti e del Sistema Sanitario.
Per la creazione di una Relazione di Cura sono indispensabili l’ascolto della storia del paziente, un atteggiamento empatico e anche una buona comunicazione non verbale (CNV). Difatti i gesti, il tono della voce, la postura e le espressioni facciali, se congruenti col discorso del sanitario, sono correttamente interpretati dal paziente e dal caregiver, e permettono la nascita di un rapporto di fiducia, di un’alleanza terapeutica, col comune obiettivo di sconfiggere la malattia.

Da quasi un anno la pandemia SARS-CoV-2 ha reso molto più difficile la relazione coi pazienti, in particolare se ospedalizzati. Mascherine FFP2, visiera, guanti in lattice, tuta, copricalzari e distanza fisica fanno sì che le persone ricoverate vedano solo gli occhi del medico e dell’infermiere, non avendo più modo di interpretare quegli elementi non verbali in grado di dare un istintivo conforto in un contesto così difficile, aggravato dal distanziamento fisico e dall’impossibilità di ricevere la visita dei propri cari.
Nel suo racconto Il sacrificio del contatto umano, tratto dal libro Emozioni virali. Le voci dei medici dalla pandemia (Il Pensiero Scientifico Editore), l’oncologa del Policlinico San Martino di Genova Claudia Bighin descrive le difficoltà ad accogliere i pazienti oncologici in DH, reparto o ambulatorio durante il Covid-19. Seppur da professionista abituata a gestire le emozioni, essere costretta a modificare il proprio approccio non è stato semplice. Ne riportiamo uno stralcio:
Nell’era pre-Covid, quando comunicavo la diagnosi di cancro (che fosse iniziale o di recidiva), l’espressione del mio volto e i miei gesti erano sempre il più accogliente possibile. Oltre alle mie parole, anche la mia postura, i miei movimenti, cercavano di comunicare empatia: il sorriso dava speranza nell’efficacia dei trattamenti da intraprendere, la mano poggiata sul braccio o sulla spalla trasmetteva vicinanza, soprattutto quando la comunicazione riguardava l’assenza di terapie realmente efficaci. Invitavo sempre i familiari ad assistere a ogni colloquio, a entrare nella camera dove veniva infusa la chemioterapia al proprio caro o a sedersi vicino al letto senza mai mandare via nessuno, senza nascondere niente a meno che non fosse il paziente stesso a chiedermelo. Ho imparato a sorridere con gli occhi, a incoraggiare con lo sguardo, a palpare noduli mammari con i guanti, ad auscultare toraci squassati da tossi neoplastiche cercando contemporaneamente di schivare eventuali droplets. Mi sono trattenuta innumerevoli volte dal dare la mano o dal poggiarla su schiene tremanti dal pianto, ho gentilmente accompagnato fuori dal day hospital mariti ansiosi di essere vicini alla moglie durante il primo ciclo di chemioterapia, ho dovuto a malincuore limitare a una sola visita al giorno di pochi minuti l’incontro tra una moglie e il marito ricoverato. Ho comunicato decessi al telefono rimanendo in silenzio, non riuscendo a riempire con parole vuote e inutili quel che avrei voluto colmare con un semplice abbraccio. Non solo i malati Covid-19 se ne sono andati da soli, ma anche i miei numerosi pazienti.
Il racconto è stato scritto un paio di mesi dopo lo scoppio della pandemia, in uno scenario ben diverso da quello attuale anche per le possibilità di visita dei familiari ai pazienti ricoverati, ma in questo nuovo mondo che stiamo vivendo da quasi un anno, evidenzia anche come possa impattare la professione e il modus operandi di chi, per scelta, è impegnato quotidianamente nella lotta contro il mostro della malattia, quale che sia il suo nome.

Carlo Negri, esperto di marketing farmaceutico e comunicazione in Sanità