Cromosomi XX
Da inizio anno sono morte più di 10 donne, mentre sto scrivendo e per quando uscirà questo pezzo chissà quante altre ne moriranno. Li chiamiamo femminicidi.
Abbiamo un’emergenza che non si arresta, passa il tempo, ma i numeri sono sempre gli stessi e, molte volte, di anno in anno, aumentano, come se si tentasse di superare un record.
Un record fatto però da un gioco macabro ad eliminazione di quante più ossa e carne possibile, ma ossa e carne solo di un tipo di essere umano: la donna, cromosomi xx.
Ricordate la favola di Esopo le due bisacce? In questa favola Prometeo aveva appeso al collo di ogni essere umano due bisacce, quella piena dei difetti altrui davanti e quella piena dei difetti propri dietro, in questo modo le persone avevano la possibilità di scorgere i difetti degli altri e mai quelli propri.
Come in questa favola, a noi capita che le cose sgradevoli sappiamo leggerle e analizzarle solo nelle case degli altri, in quelle case che sono lontane anni luce da noi e appartengono ad altri mondi e altre culture.
Questa emergenza culturale, sociale e psicologica, che viviamo ogni giorno, tendiamo a minimizzarla, quasi sminuirla, e invece è uno stillicidio di corpi, corpi di donna che cadono uno alla volta per mano di un uomo, uomo che il più delle volte ha giurato di amarle e di proteggerle.

Quando sentiamo, ad esempio in India, di violenze carnali e omicidi, nei riguardi di bambine e donne, siamo pronti a condannarli fermamente, a creare la distanza da quella barbarie, ci sentiamo addirittura superiori rispetto a quel modo primitivo di abusare del corpo di una donna.
E proprio come ci dice Esopo, nella sua favola, vediamo i loro orrori, senza vedere i nostri. Vediamo le loro mani insanguinate, ma non vediamo la scia di sangue che lasciano le nostre mani nelle città in cui viviamo, nelle nostre case, nella nostra cultura di persone perbene, libere ed emancipate. E questo perché abbiamo imparato a fare violenza in modo più sofisticato, subdolo, sottile. Come abbiamo reso la violenza più accettabile? Abbiamo iniziato a parlare di amore, abbiamo iniziato a raccontare di quanto fosse difficile superare il dolore di un amore non corrisposto, di quanto fosse difficile restare lucidi quando si è preda di un sentimento così potente. Ecco come abbiamo reso la violenza socialmente accettabile, parlando di amore, dove però l’amore non esiste.
Ancora oggi nel nostro amato Paese la donna è percepita alla stregua di un oggetto, una proprietà da possedere. Ancora oggi alle nostre bambine all’asilo, quando un bambino le strattona, diciamo che lo fa perché è innamorato di loro. E come si fa a crescere bene un futuro uomo e una futura donna, se all’uomo insegniamo che è giusto dimostrare affetto tirando i capelli, e a una donna insegniamo che chi la maltratta lo fa perché le vuole bene?
È dura scardinare pezzo pezzo anni di mala educazione, che parte dalle parole e finisce nei gesti. Con le parole si inizia a creare un disequilibrio, poi con i gesti si creano le fratture e con la rassegnazione si crea la giustificazione per perpetrare la violenza di generazione in generazione.
È assurdo pensare che nel 2021 una donna non possa permettersi di decidere liberamente della sua vita, perché è insita nell’abitudine di una intera comunità la legittimazione della proprietà della donna nelle mani dell’uomo. Che sia dell’acido, un coltello o una pistola non fa differenza, l’importante è impedire alla costola di staccarsi dal corpo ed essere autonoma.
Per l’uomo che uccide, poco conta se quella donna è madre, se quella donna è la madre dei propri figli, poco importa se ciò che resta di lei, i figli, porteranno impresso negli occhi quell’orrore.

Queste vittime indirette non meritano di essere ignorate, eppure sistematicamente ci si dimentica di loro, e facciamo due volte un torto a queste donne, a queste madri, perché ci dimentichiamo di loro e del frutto del loro grembo, di ciò che loro in vita non si sarebbero mai dimenticate. I figli sono il dolore che resta. Sono quelli che si ritrovano a crescere senza madre e che devono fare i conti ogni giorno con il fatto che la loro condizione di privazione è nata per mano e opera del loro stesso padre.
Mi sono trovata a parlare con un’amica di un incontro che avevo avuto con una madre a cui la figlia era morta per mano del suo compagno, e mentre le raccontavo la storia e le dicevo il nome di quella donna, la mia amica mi ha interrotto per dirmi: non ricordo questa ragazza, troppe ne vengono uccise. Questo episodio non solo mi ha fatto gelare il sangue, ma mi ha dato modo di pensare a come l’abitudine ci stia rendendo ciechi. Ci stiamo abituando a tal punto da non distinguere più la vita di una donna dall’altra, tutti uguali questi cromosomi XX. E invece ognuna di loro era diversa, ognuna di loro aveva progetti e sogni, in comune si sono ritrovate ad avere solo la stessa condanna a morte.
Muore una donna ogni tre giorni, è una guerra, la donna è la razza da eliminare, non possiamo più parlare di femminicidio, è un termine troppo riduttivo, noi ci troviamo davanti a un crimine contro l’umanità.
Servirà sempre meno scendere in piazza vestiti di rosso una volta all’anno, o mettere panchine con i nomi delle vittime. Servirà sempre meno perché ci stiamo abituando anche a questo tipo di messaggio e così, passato il giorno della manifestazione, smettiamo di pensarci.
A Napoli diciamo: passato il Santo, passata la festa. Ma qui non ci sta nessuna festa, qui ci sta solo il sangue di vittime che scorre, ad intervalli regolari, giorno dopo giorno, anno dopo anno.
E allora che possiamo fare? C’è bisogno di fare in fretta, perché è già tardi. Ci tocca lavorare sulle parole, sui gesti, sulle emozioni, sulla rassegnazione.
Educhiamo le piccole persone a diventare grandi persone. Cominciamo a riscrivere la grammatica azione-emozione, a scuola, nei banchi, e a casa, in famiglia. Come in un gioco di specchi esercitiamoci tutti, grandi e piccoli, a guardare l’altro dentro noi e a riconoscerne sentimenti e diritti.

Francesca Pappacena, Psicologa, attivista per i diritti civili, Referente Regionale Croce Rossa LGBT, discriminazioni e violenze. Scrive poesie, brevi racconti senza finale e si interroga su tutto