Dietro la tela

La nostra esistenza, per chi la vive all’interno della propria quotidianità, sembra infinita, per cui ci comportiamo come se la nostra morte non arrivasse mai.

E se la fine dei tempi è, per ogni uomo, la morte, pensare a questa durante la vita significa trasformare il tempo infinito del nostro presente in un “quantum” finito, il che a sua volta significa attendere con angoscia che l’orologio abbia contato tutti gli istanti della stessa nostra vita e l’insetto del tempo abbia rosicchiato,  minuto per minuto, questo quantum di vita.

Il domani, dunque, è il nostro oggi.

Esso brilla sulla lampada illuminata dalla speranza che è nel nostro cuore, che orienta la nostra quotidianità e che fa rifiorire in ciascuno di noi la sua Terra Promessa.

Niente, però, può impedire al tempo di scorrere, nessuno può economizzare la temporalità, come non si può economizzare la mortalità della morte e quindi l’avvenire di tutti gli “a venire”, ciò che deve sempre “star per venire”, diventa improvvisamente imminente, i tempi sono vicini, arrivano, sono lì, sono venuti, bussano alla porta. “ Ecce venit” e quella morte che, per definizione, rimane un futuro per tutta la durata della vita, diventa bruscamente e di colpo un altro presente, essa ci conduce nella profondità del Regno dello Spirito, dove il timore ci avvolge, ma senza tormenti, poiché è, piuttosto, un presagio dell’Infinito, di ciò che c’è dietro la tela sulla quale abbiamo dipinto i nostri giorni.

Amore e malinconia lì risuoneranno in voci incantevoli; la notte del mondo si scioglierà in un chiaro fulgore di porpora e, in un invincibile anelito, seguiremo quelle figure che con un cenno sereno ci chiameranno tra le loro schiere giocose che scorrono in volo tra le nubi, nella eterna danza delle sfere celesti.

E così, dunque, anche per me il tempo fugge veloce, inesorabile, anche ironico e, come la tragica perfidia umana, schianta tutto nel suo cammino perverso.

Che altro è la nostra vita, infatti se non una serie di preludi a quel canto ignoto e misterioso di cui la morte intona la prima e più solenne nota?

E come tutti, anche io, un giorno, stanco di dolore, stanco di conforto, stanco di bene, stanco di amore, stanco di sofferenza, dovrò dire ciò che, come stupendo riflesso della immagine della morte, nocchiera dell’Acheronte, il grande e tormentato poeta Charles Baudelaire scolpisce, con vigore e plasticità michelangiolesca, in una delle ultime strofe del suo poema “Le Voyage”, il Viaggio :

“o mort, vieux capitaine, il est temps!

levons l’ancre!……”

 Dopo aver attraversato i tanti “ sentieri selvaggi” della vita, le tante guerre, le poche vittorie e le tante incertezze, giungerà, inesorabilmente anche per chi scrive, il momento di levare l’ancora.

Però ci terrei a che l’ultima sosta nell’ultimo porto, per lo meno non fosse caotica o noiosa e triste, ma avesse le caratteristiche di un ultimo bel dono inatteso. Chissà…….

Michele Chiodi, già dirigente di istituti finanziari, collabora con periodici e associazioni culturali

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