Luigi Francesco Pasa nasce ad Agordo, provincia di Belluno, il 17 marzo 1899. Viene arruolato nel Regio Esercito nell’ultimo anno della Prima Guerra mondiale, un ragazzo del ‘99 e viene mandato in zona di combattimento, nell’artiglieria.
Partecipa nel dopoguerra all’impresa di Fiume fra le fila di quei Legionari ribelli di Gabriele D’Annunzio che difesero l’italianità della città e la tennero per oltre un anno, dando vita ad uno dei più originali ed esaltanti esperimenti rivoluzionari della Storia.
Forse sconcertato da quanto stava accadendo nel lungo primo dopoguerra, si rivolge alla religione e il 7 luglio 1929, all’età di trent’ anni, viene ordinato sacerdote nella congregazione salesiana. Tra il 1923 e il 1929 aveva svolto l’attività di insegnante di scuola professionale, venendo a contatto con l’universo giovanile e capendo l’importanza che riveste per i ragazzi una figura autorevole, carismatica come quella di Giovanni Bosco, fondatore della congregazione che del Santo porta appunto il nome.
Sentendo il richiamo della vita militare e respirando la nuova atmosfera dell’Italia degli anni ’30, alla ricerca di una nuova identità politica e sociale nel contesto europeo, nel 1938 si arruola quale cappellano militare ed è assegnato nei territori d’oltremare.
Nel 1941, nel pieno del secondo conflitto mondiale, ritornato in Italia, lo troviamo cappellano militare dell’aeroporto di Aviano, in Friuli, da dove mantiene assidui contatti con i confratelli salesiani del Collegio Don Bosco di Pordenone.
Ed è in questa situazione che lo coglie la fatidica data dell’8 settembre del 1943. L’annuncio dell’armistizio che il governo Badoglio, a nome del re Vittorio Emanuele III, stipula con le forze anglo-americane provoca, come sappiamo, un vero cataclisma. Le forze armate sono lasciate senza chiari ordini e direttive concrete, i vertici dello Stato si danno a una indegna fuga raggiungendo i più sicuri territori occupati dagli anglo-americani e scatenando la reazione di coloro che fino al giorno prima erano stati i nostri alleati tedeschi.
Gli unici che non si fanno trovare impreparati sono proprio i tedeschi. Già diffidenti nei confronti dell’alleato italiano, i vertici dell’esercito germanico avevano predisposto un piano per l’occupazione del territorio italiano e per il disarmo completo del Regio Esercito.
Nel giro di pochi giorni, su tutti i fronti di guerra e sul nostro territorio nazionale sono disarmati e rastrellati circa 800 mila soldati italiani, spesso fino a quel momento inquadrati tatticamente in grandi unità a comando germanico, oppure operanti a stretto contatto con l’alleato tedesco, con cui avevano fino ad allora combattuto fianco a fianco.
I militari italiani fatti prigionieri, spesso dopo disperati combattimenti difensivi e a seguito del rifiuto di cedere le armi, furono caricati su lunghi treni formati da carri bestiame e avviati a nord, in Polonia e poi in Germania, per essere internati in campi di concentramento.
La situazione politica era assai confusa, non si capiva chi fosse ora belligerante e contro chi, e i militari internati non godevano (e non godranno mai) dello status di prigionieri di guerra che secondo le Convenzioni internazionali offriva alcune precise garanzie, come le ispezioni dei campi da parte della Croce Rossa Internazionale o la possibilità di inviare e ricevere posta.
La condizione di questi deportati era stata definita con la qualifica di IMI, Internati Militari Italiani, Italienische Militär Internierten, e la realtà della loro detenzione era veramente difficile e dura, in molti casi terribile.
Dopo la proclamazione della Repubblica Sociale Italiana, il 23 settembre 1943, fu chiesto ai prigionieri italiani di aderire alla neonata repubblica o di tornare a combattere tra le fila dell’esercito tedesco. Un certo numero rispose positivamente e decise di continuare la guerra tra le fila della Repubblica di Salò, ma la stragrande maggioranza e con diverse motivazioni scelse di non aderire e di rimanere in prigionia, anche perchè la mancanza di notizie, la carenza di informazioni, la confusione generale, rendevano difficilissima e problematica ogni scelta, qualunque essa fosse. Per gli ufficiali, poi, era forte il senso dell’onore e della lealtà al giuramento prestato a suo tempo che impediva decisamente ogni altra scelta, pena il venir meno alla parola data.
Decisioni tutte che comportarono sacrifici durissimi a coloro che, rinchiusi tra il filo spinato del campo di concentramento, ribadirono giorno dopo giorno i propri propositi e le proprie scelte a fronte di fame, malattie, privazioni e morte.
Lo stupore e la sorpresa, dilagarono in quel fatidico 8 di settembre, anche nel campo di aviazione di Aviano, in cui prestava appunto servizio il cappellano militare Luigi Pasa e anche lì gli avvenimenti presero una piega tragica.
Il 12 settembre don Pasa si era recato a Padova per cercare un contatto con i comandi che non si riuscivano a raggiungere telefonicamente, perché, ormai, il caos regnava a tutti i livelli. Quello stesso giorno l’aeroporto di Aviano fu occupato dai tedeschi e, nei giorni immediatamente successivi, don Pasa, rientrato ad Aviano, riuscì a sottrarre all’occupante la bandiera e la cassa del suo reparto.
In quei primi giorni ebbe una certa libertà di movimento in considerazione della sua condizione di sacerdote. E quando il 19 settembre, i tedeschi caricarono tutto il personale dell’aeroporto e tutti gli altri militari rastrellati sui treni per il Reich, don Pasa non era stato né convocato né arrestato. Fu avvisato di quanto stava succedendo e allora si precipitò alla stazione di Pordenone per condividere la sorte dei suoi commilitoni che erano anche il suo gregge: con l’adesione volontaria alla deportazione divenne uno dei tanti, perdendo agli occhi dei tedeschi quella minima considerazione che gli derivava dalla sua condizione sacerdotale.
Il viaggio in treno fu lungo e penoso. Il primo campo fu lo Stalag XB di Sandbostel (in Germania) dove il 28 settembre, come prassi, furono separati gli ufficiali dai soldati. Questa pratica è comune alla detenzione bellica di tutti gli eserciti e viene utilizzata per destabilizzare ancora di più i soldati prigionieri, privati anche del punto di riferimento costituito dai superiori gerarchici. Don Pasa chiese di andare con i soldati, sapendoli più giovani, più deboli, meno preparati culturalmente, ma ottenne un rifiuto in quanto, come cappellano militare, era assimilato al grado di tenente e quindi doveva essere internato insieme agli ufficiali.
In questo campo, il Nostro cominciò la sua opera in favore dei suoi compagni, cercando anche di celebrare la messa, cosa che in un primo momento gli fu impedita dai tedeschi.

Nel clima di allentamento dei vincoli gerarchici e di abbandono che si registrava anche fra gli ufficiali detenuti, la presenza di un sacerdote era considerata da tutti gli internati molto positivamente, come se finalmente ci fosse qualcuno in grado di prendere le parti dei più deboli. La figura del sacerdote assumeva così un ruolo carismatico, riuscendo anche a mediare con i nuovi padroni.
Ricevuto finalmente il permesso di celebrare, il primo giorno disse quattro messe su un altare da campo datogli da un sacerdote francese, senza riuscire a soddisfare tutte le richieste che aveva avuto. L’intensità di tale partecipazione è testimoniata da tanta memorialistica: nella Messa i soldati ritrovavano un pezzo di casa e il ricordo di una vita normale.
Ai primi di ottobre furono ancora trasferiti: il 12, nel campo Offlager 333 di Benjaminowo, in Polonia, il sacerdote viene immatricolato e diventa il n. 4765.
Per la consolazione dei suoi compagni don Pasa cominciò a organizzare cerimonie religiose, dandosi da fare per la recita del rosario in ogni baracca; organizzò anche gli altri sacerdoti presenti al campo, invitandoli a dimorare nelle baracche assieme agli altri prigionieri ed a non a radunarsi nella baracca dei preti, come succedeva in altri campi.
Fervido, aperto, generosamente impulsivo nel suo zelo apostolico, egli cerca tutte le occasioni per invitare alla preghiera e al raccoglimento. Un’attività alla quale dedica le sue cure più assidue è la raccolta di viveri, medicinali e denaro per i militari ricoverati all’infermeria o all’ospedale.
Nel febbraio del 1944 don Pasa riuscì a mettersi in contatto con il Nunzio Apostolico a Berlino, monsignor Cesare Orsenigo, da cui ottenne di farsi mandare medicinali e generi di conforto per gli internati. Con il beneplacito del Nunzio amministrò poi la Cresima a molti internati che non l’avevano ricevuta da adolescenti.
Nei vari campi in cui fu trasferito continuò l’opera di sostegno morale e religioso, cercando di mantenere saldi gli animi e contribuendo a rinsaldare la volontà di sopravvivenza e la speranza del ritorno in Patria.
La guerra intanto continuava e il 13 aprile 1945, nel campo di Wietzendorf (sempre in Germania), don Pasa e gli altri ufficiali si ritrovarono liberi: i tedeschi se ne erano andati, la battaglia infuriava nelle località vicine e la zona passò presto sotto il controllo delle truppe inglesi. La situazione però non cambiò di molto, dal momento che nessuno si interessò a quei prigionieri.

Don Pasa, sollecitato dai suoi compagni di sventura, nei primi giorni di maggio intraprese un avventuroso viaggio che lo condusse a Bruxelles, poi a Parigi, dove incontrò il Nunzio Apostolico monsignor Angelo Roncalli, il futuro papa Giovanni XXIII.
Il 23 maggio giunse a Roma dove in Vaticano illustrò la reale situazione degli internati militari italiani, oscura ai più. Non c’era una conoscenza adeguata della situazione e non si voleva riconoscere la valenza delle sofferenze e delle privazioni subite dai nostri militari prigionieri in Germania.
Si confondevano gli IMI con quanti erano stati mandati o si erano volontariamente offerti quali lavoratori per la Germania, non riconoscendo quindi alcun valore alle sofferenze patite dai tanti soldati nei 20 mesi di prigionia. Ma in ciò si poteva anche cogliere l’eco del discredito che era caduto sul Regio Esercito in conseguenza del vergognoso comportamento dei suoi massimi vertici dopo l’8 settembre del 1943.
Dal 7 luglio 1945 don Pasa organizzò e guidò quattro diverse missioni per portare assistenza, viveri, indumenti agli internati e per organizzare il loro rientro in Italia.
Quando giunse al suo campo, a Wietzendorf, l’accoglienza ricevuta fu indimenticabile. Ormai erano passati circa due mesi dalla sua partenza e nessuno si aspettava di rivederlo. Arrivò invece con generi di conforto, ma soprattutto con lettere e notizie dei familiari degli internati, portando ancora una volta gioia e consolazione.
L’ultima di tali missioni si concluse il 14 novembre 1945: dopo quella data il sacerdote riprese l’attività e la vita salesiana.
Nel 1949 don Pasa si trasferì in Argentina, rimanendovi due anni al servizio dei tanti emigrati italiani colà residenti. Fu poi al santuario della Madonna Greca di Ravenna e successivamente al Collegio Salesiano di Napoli. Venne trasferito infine a Forlì, dove morì il 27 agosto 1977.
Fu sepolto a Rimini e la sua tomba, per sua esplicita volontà, fu contrassegnata da una semplice croce di legno, come le tombe dei suoi morti in Germania.
Questo era il don Luigi Pasa che al sergente maggiore Angelo Pezzoli, il quale un giorno gli chiese scherzosamente da dove ricavasse tanto coraggio, rispose semplicemente: Quando si tratta di fare del bene non ho paura di niente.
E queste parole decise rivelavano la presenza di quello spirito indomito del legionario che era stato con il Comandante Gabriele D’annunzio e che con lui aveva vissuto l’avventura ribelle di Fiume: uno spirito che non l’aveva mai abbandonato nel corso di tutta una vita vissuta pericolosamente, prima da soldato semplice e poi da cappellano militare
E se d’Annunzio fosse vissuto più a lungo ed avesse appreso dell’operato di Luigi Pasa durante la guerra e nei lager germanici, di sicuro si sarebbe inginocchiato davanti a lui, forse un po’ teatralmente, come nel suo stile di poeta soldato, ma con sincera ammirazione e gli avrebbe baciato la veste talare, dicendogli Grazie a nome dell’Italia tutta, quella vera: l’Italia che è Comunità e Nazione.
L’altra Italia, quella che non gli ha mai attribuito, per cavilli burocratici, quella medaglia d’oro al valor militare, richiesta a gran voce dai commilitoni di don Pasa, si è oramai dimenticata di lui.
Ma questa è, ancora una volta, un’altra storia.

Michele Chiodi, già dirigente di istituti finanziari, collabora con periodici e associazioni culturali.