Donna Sabella
Nun me chiamate cchiù Donna Sabella, chiammateme Sabella sventurata. Aggio perduto trentatre castella, la chiana Puglia e la Basilicata. Aggio perduto la Salierno bella, lo strazio della disgraziata, la sera ‘mbarcaie ‘nvarchetella e la matina mi trovai negata.
Questa struggente villanella cilentana (bellissima l’interpretazione della Nuova Compagnia di Canto Popolare) è il canto triste della Principessa Sanseverino, spogliata di tutti i suoi possedimenti nel Regno dal Viceré di Napoli Pedro da Toledo per vendetta contro la sua famiglia, e tornata dopo anni dall’esilio per poi morire in un naufragio. La storia racconta di Isabella Villamarino, figlia del conte di Capaccio e Altavilla e Ammiraglio del Regno di Spagna, che all’età di 10 anni andò sposa al Principe di Salerno Ferrante di Sanseverino, in un matrimonio combinato che si rivelò invece una felice unione d’amore vissuta per molti anni, e che si concluse con la distruzione della famiglia Sanseverino, prima fra le grandi casate del Regno di Napoli, e l’espropriazione di tutti i suoi beni e possedimenti: 300 feudi, 40 contee, 9 marchesati, 12 ducati, 10 principati.
I Sanseverino furono condottieri, alti prelati, ammiragli. Forti come uno Stato, possedevano un proprio esercito e avevano il dominio d’intere regioni dell’Italia meridionale.
Roberto Sanseverino, nel 1465, si distinse al comando della flotta aragonese nella vittoriosa battaglia di Ischia contro gli angioini. Il suo ritorno trionfale è immortalato nella famosa Tavola Strozzi conservata nel Museo di San Martino, il primo dipinto a volo d’uccello della città di Napoli. Fu Roberto stesso che, nel 1470, fece costruire da Novello di San Lucano il palazzo di famiglia in Piazza del Gesù, primo esempio in Italia di edificio a punta di diamante, del quale sono rimaste solo le mura perimetrali nel cortile del liceo Genovesi e all’interno dell’adiacente istituto Pimentel Fonseca, e soprattutto la facciata di quella che oggi è la Chiesa del Gesù Nuovo. Lì Ferrante, il cui segretario era Bernardo Tasso, padre del poeta Torquato, con Isabella costituì un’Accademia letteraria, un circolo intellettuale di menti aperte in cui si muovevano personaggi che esprimevano idee religiose in odore d’eresia, frequentato da poeti, musicisti, prosatori, e al quale partecipavano loro stessi con propri componimenti.
I Sanseverino erano così potenti e rispettati che quando Carlo V tornò dalla vittoria di Tunisi contro gli ottomani, nel 1535, fu ospite nel palazzo di Ferrante, che aveva partecipato all’impresa: l’Imperatore vi rimase tre giorni, fra feste, pranzi, balli e fuochi d’artificio, e strinse amicizia con Isabella, dalla quale fu colpito per le sue doti di cortesia e intelligenza.
Anni dopo la Spagna impose a Napoli il Tribunale dell’Inquisizione, ma la città si ribellò, non accettando la cancellazione delle libertà e delle prerogative che le appartenevano. Vi furono scontri armati, numerosi morti, e Napoli fu bombardata dai cannoni dei vari castelli, fra i quali quello che la sovrastava: Sant’Elmo. A capo del movimento contro l’Inquisizione c’era Ferrante, che era riuscito a riunire nobiltà e popolo.
Temendo la pericolosa saldatura fra i due ceti contro la Corona, Carlo V acconsentì alla richiesta di revoca del provvedimento e il Tribunale dell’Inquisizione non fu più istituito.
Forte di questo successo, Ferrante inviò un proprio rappresentante presso Carlo V per parlare di giustizia, ma l’Imperatore s’infuriò, mal tollerando che un Sanseverino osasse ribellarsi alla sua autorità imperiale negoziando, per cui andava punito.
Il Viceré di Napoli, Pedro da Toledo, cui si deve l’omonima strada, approfittò dell’evento per accusare Ferrante di reati gravissimi: eresia, sodomia, furto e congiura contro il Regno di Spagna.
Al momento della condanna Ferrante non si trovava a Napoli, per cui riuscì a fuggire in Francia, ma il Viceré gli tolse tutte le ricchezze e i possedimenti e fece abbattere il Palazzo di Piazza del Gesù, di cui rimasero solo le mura e la facciata a punta di diamante, ricoperta da misteriosi segni tracciati fra le pietre di piperno.
Fino a qualche anno fa si pensava che le incisioni sulla facciata fossero un codice attraverso cui gli scalpellini trasmettevano informazioni e segreti agli adepti della loro corporazione. Nel 2010 però, lo storico dell’arte ed esperto di musica rinascimentale Vincenzo De Pasquale, rivelò che quelle incisioni erano sette lettere aramaiche corrispondenti alle note musicali, da leggere al contrario, partendo da sotto a sopra, da destra a sinistra. La scoperta era frutto di un viaggio in Ungheria effettuato nel 2005, grazie all’intuizione di un musicologo e alla traduzione dall’aramaico dei segni da parte di un gesuita. Trasferiti i segni su uno spartito, apparve una composizione per strumenti a plettro, della durata di circa 45 minuti, alla quale diedero il nome Enigma.
Tornando alla triste storia di Isabella, nei suoi confronti il Viceré operò una persecuzione feroce, accusandola di partecipare alla ribellione del marito; non riuscendo a trovare prove, fu privata di tutti i suoi beni. Ormai sola, la principessa non vide più il suo amato Ferrante, protetto dal Re di Francia, dove rimase in esilio fino alla morte. Le sofferenze morali e materiali piegarono la donna, che decise di partire per la Spagna per chiedere giustizia al suo vecchio ammiratore Carlo V, ma dovette aspettare sette anni prima che l’Imperatore le desse il permesso di salire su una nave per tornare a Napoli. Alla vigilia della partenza fu colta da un colpo apoplettico e morì a Valladolid.
Fedele, raffinata, intelligente, amatissima dalla sua gente, che compose a sua memoria quella villanella, canto di disperazione di una sventurata che immaginarono morta in un naufragio. Non è morta come tragicamente raccontato nella canzone, ma la leggenda talvolta supera la realtà, e il popolo volle ricordarla in un canto triste e lungo come un pianto, che racconta di una donna sola, perseguitata, infelice, privata delle sue terre e del suo amore. Con la morte di Isabella e Ferrante si estinse il potentissimo casato dei Sanseverino.

Sergio Giaquinto, Giurista, già Dirigente Amministrativo dell’A.O. dei Colli, cultore di Storia e Archeologia