9 marzo. Il Paese si ferma. Solo le attività essenziali continuano. E tra le attività mediche continueranno solo quelle di emergenza, le oncoematologiche e la dialisi.
Ematologia. Leucemie, linfomi, mielomi, mielodisplasie.
Malattie gravi, spesso invalidanti, spesso devastanti. Di quelle che ti cambiano la vita. Malattie acute, con necessità di diagnosi e terapia immediata, che possono non lasciare scampo in settimane o mesi. Malattie che, se anche vanno bene, ovvero in remissione, lasciano un segno indelebile e l’attesa sospesa del loro temuto ritorno. Non sentirete mai un ematologo parlare di guarigione (se non in rari casi), ma di una condizione di remissione completa, si spera quanto più lunga possibile. Oppure il male si presenta in forme cronico-invalidanti, con frequenti recidive, nel corso degli anni sempre più aggressive. E la vita vissuta resta sospesa tra un periodo di remissione e una nuova terapia. Le persone che ti accompagnano, per lunghi periodi, si aggrappano a te. Quasi impossibile mantenere il tanto decantato distacco professionale, ammesso che sia giusto mantenerlo. Quello che ti porta a star male a ogni, purtroppo frequente, insuccesso. Un carico di ansia, angoscia, paura di un nemico che sa essere invisibile e coglierti in qualsiasi momento senza preavviso e senza che tu possa difenderti.
Lavoro nel day hospital del più grande ospedale campano: centocinquanta persone al giorno, quasi nessuno riesce a venire da solo, la necessità di compagnia e conforto è palpabile, ma anche gli effetti della terapia suggeriscono di essere accompagnati. Centocinquanta persone (persone, non pazienti o, peggio ancora clienti… persone!) più gli accompagnatori che, con il loro carico di ansia e di domande, a fronte di un numero esiguo di medici e infermieri, vanno fronteggiati ogni giorno.
E ora ecco il coronato malefico. Si avvicina invisibile e micidiale. Colpisce duramente chi ha più patologie. Nulla si sa degli effetti sugli immunocompromessi o su chi è in chemio-immunoterapie, ma la logica dice che, essendo le infezioni tra le maggiori cause di morte dei pazienti ematologici, c’è poco da stare allegri. Ma non ci si può fermare.
Al carico di ansia si aggiunge quindi un nuovo elemento. Alle domande e ai dubbi sulla opportunità di praticare o meno una terapia di fronte a una tosse, una diarrea, un numero di globuli bianchi basso per non rischiare effetti collaterali inaccettabili, si somma una nuova variabile da conteggiare. Oltre alle misure per evitare il contagio, tuo e dei pazienti.
Siamo però individuati come percorso bianco. Da rischio basso quindi. Solo mascherine chirurgiche. Ed evitare assembramenti e contatti stretti.
Bene, in trincea allora, che la battaglia si fa ancora più dura.
Chiediamo e otteniamo mascherine e camici protettivi. All’interno del day hospital entra solo la persona che deve praticare chemioterapia, trasfusione, esami diagnostici, e solo dopo triage telefonico. Niente più accompagnatori, niente più persone fuori appuntamento per emergenze cliniche o esami alterati.
I controlli degli esami verranno fatti via fax, via mail, via telefono. Telemedicina a mani nude insomma.
I corridoi si svuotano, non più strette di mano a sancire l’alleanza tra medico e persona che ti si affida, niente pacche sulle spalle per dare forza nella battaglia personale di ciascuno. Niente più sorrisi di incoraggiamento. Resta solo il silenzio, la paura di un nuovo nemico e gli sguardi sopra le mascherine.
Gli sguardi, quelli sì, restano. Non solo restano ma si amplificano. Gli occhi sono lo specchio dell’anima, si dice. Mai come adesso cogli l’essenza di questa frase. Adesso che sei costretto a guardare quegli occhi, l’unica parte scoperta. E ti perdi in tutto quello che hanno da dirti, in tutte le domande non poste. Dagli sguardi cogli la paura ma al tempo stesso la forza che fa andare avanti le persone che cerchi, non sempre con successo, di curare.
E anche gli sguardi dei colleghi riescono a parlarti.
Il virus intanto si presenta nella maniera più subdola possibile.
Telefoni il giorno prima della visita. “Ha febbre? Ne ha avuta? Ha tosse? Ha avuto contatti sospetti?”.
“No dottore, non si preoccupi, sto bene e non ho visto nessuno”.
“Bene, venga domani allora che facciamo la terapia”.
Due giorni dopo la telefonata. “Dottore, ho 39 di febbre, che faccio?”.
“Ha difficoltà respiratoria? No? Inizi antibiotico, cortisone, tachipirina e mi faccia sapere”.
“Dottore, la febbre non passa”.
“Chiami il 118 e si ricoveri che ha bisogno di terapia antibiotica endovenosa”.
“Dottore hanno fatto il tampone, è positivo”.
E allora inizi a pensare chi lo ha visitato, per quanto tempo, chi ha somministrato la terapia, quale terapia. Fai sì il test rapido, tu e gli altri che avete avuto il contatto, ma intanto conti i giorni, misuri la febbre e controlli il tuo respiro. Ti dici che lui aveva la mascherina, tu e gli altri avevate la mascherina e il contatto non è stato poi così stretto. E aspetti notizie del tuo paziente, ti interroghi se sia stato giusto somministrare la terapia. Ma sai che la tua domanda è solo retorica. Non potevi sapere del virus, e non somministrare la terapia avrebbe fortificato l’altro nemico, la malattia.
E così giorno dopo giorno, giorni che ti sembrano tutti uguali, casa-lavoro, lavoro-casa. Non è tanto diverso dal solito in realtà ma, con la paura di essere vettore del male per chi ti incontra, ti consumi nell’attesa.
Né carne né pesce, non sei in prima linea né tra la retroguardia messa in ferie. Il tuo lavoro continua a ritmi ancora più forsennati del solito.
Scopri, e speri che duri, una comunità di medici che si parla, si confronta con un’intensità maggiore di prima, e ti auguri che la memoria di questi giorni rimanga per rimediare a tutto ciò che prima avevamo sbagliato, per farci affermare con forza che noi non facciamo i medici, noi siamo medici. E intanto aspetti.

Stefano Rocco, ematologo ospedale Cardarelli