“ Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gòcciole e foglie
lontane. ”
( da “La pioggia nel pineto” di Gabriele d’Annunzio)
La fine di un’estate porta sempre con sé una carica malinconica, quasi un velo di tristezza che cala, come un sipario, a chiudere la rappresentazione di una stagione per aprirne poi un’altra, la cui trama è incerta ed ancora tutta da scrivere e da raccontare.

Rileggendo “La pioggia nel pineto”, forse la più celebre tra le liriche dannunziane, mi accorgo di quante siano state le interpretazioni date a questi versi, spesso diverse tra loro, spesso tra loro discordanti. E forse è proprio questa la forza del loro successo e della loro immortalità, perché di immortalità si tratta.
In questa lirica stupenda l’argomento è ridotto ad un’unica voce: quella della pioggia estiva che cade sulla pineta silenziosa e deserta, mentre il Poeta vi si immerge insieme ad una figura femminile (non importa chi, sicuramente un amore, un grande amore). L’antecedente del canto è la pienezza dell’estate, la presenza del mare e della sua vastità, le spiagge selvagge, le dune, la sabbia. Elementi accennati più che detti e, tuttavia, insiti nella sostanza stessa di questi versi che poi altro non sono che una parte importante, forse la più importante, di quella grande sinfonia di sole e di mare che è l’Alcyone, il libro terzo delle splendide “Laudi del Cielo del Mare della Terra e degli Eroi”, donateci dal Poeta.
La prima impressione che proviamo nel leggere questo canto, è quella di una prodigiosa capacità mimetica che riesce ad usare le parole come note, come tocchi musicali. Ed avvertiamo la sensazione di essere partecipi anche noi, insieme al Poeta, di un’acutezza estrema dei sensi, dell’udito, dell’olfatto, del tatto, protesi a cogliere ogni sfumatura, a gustare ogni sapore, ad immergersi in ogni forma ed in ogni colore, così splendidamente descritti. Ma poi, ecco che tutti questi motivi si incontrano e si fondono con la sostanza più intima della lirica e cioè con quella capacità del poeta di abbandonarsi ai brividi più tenui ed impalpabili, di immedesimarsi con le cose stesse sino a confondersi con esse, sino a perdere in esse la propria identità. Ed allora, nell’intrico del pineto, sotto la pioggia che avvolge ed inzuppa ogni erba ed ogni pianta, i due viventi, il Poeta ed Ermione, la misteriosa creatura femminile, si trasformano, quasi per incanto, nella sostanza arborea del bosco, diventano tutt’uno con la selva che li circonda. Non una metamorfosi vegetale, ma un disciogliersi e fondersi con la natura, un compenetrarsi con il battito stesso delle cose che li circondano.
E poi, su tutto, due temi dominanti.
Il tema del silenzio che appare scandito dal rumore della pioggia, dagli accordi delle cicale, dal canto delle rane.

Ed il tema di Ermione, la vaga , ma forte presenza femminile che è inscindibile da ogni verso della lirica. Figura quasi “ disincantata”, molle, tenera, calda, soffusa eppure in grado di donare alla lirica un calore dolcissimo e penetrante, quasi di confidenza erotica che conferisce ai versi una specie di intimità profonda e di arcana magia.
Ermione incarna alla perfezione quell’”eterno femminino”, così meravigliosamente descritto da Goethe nel suo “Faust” e, come tale, la sua essenza è ancestrale, misteriosa, sibillina, quasi enigmatica. E questo il Poeta lo avverte, lo intuisce, lo sente, lo sa fin troppo bene. Sembra sia sul punto di volercelo in qualche modo comunicare, ma la pioggia avvolge tutto, anche i pensieri non espressi, anche ciò che è sul punto di essere detto, ma che detto non sarà mai, mentre i versi continuano a donarci immagini che non riusciremo più a cancellare dalla memoria…
“………………………
E piove sui nostri volti
silvani;
piove su le nostre mani
ignude,
sui nostri vestimenti
leggeri,
sui freschi pensieri
che l’anima schiude novella,
su la favola bella
che ieri
m’illuse, che oggi t’illude,
o Ermione.”

Michele Chiodi, già dirigente di istituti finanziari, collabora con periodici e associazioni culturali