1941-1943: il Calvario della Divisione Messina in Montenegro e Croazia
Questa è una storia poco conosciuta. Una storia accaduta di là dell’Adriatico, là dove le aspre e selvagge Montagne Nere degradano verso il mare e verso quella costa dove un tempo anche le pietre parlavano italiano.
Una storia all’interno di una guerra volutamente caduta nell’oblio per tanti, troppi anni: quella combattuta sul fronte dei Balcani che è stato spesso considerato secondario, nello scacchiere internazionale, rispetto alle grandi vicende belliche che hanno visto protagonisti i militari italiani, nel corso del secondo conflitto mondiale.
Eppure…gli accadimenti di quel fronte balcanico hanno influenzato pesantemente la storia e la politica di una parte dell’Europa – e dell’Italia in particolare – per tutto il lungo dopoguerra, per lo meno fino al 1975, anno in cui è stato firmato il trattato di Osimo che ha sancito gli equilibri definitivi tra Italia e Federazione Jugoslava, prima del dissolvimento di quest’ultima nel corso delle recenti guerre intestine degli anni ’90.
Scrivere della storia e del martirio della Divisione di fanteria Messina equivale, allora, a rendere omaggio a tutti i nostri caduti su quel fronte, a coloro che sono riusciti a tornare, feriti nel corpo o nel profondo dell’anima ed a quanti sparirono nel nulla, prigionieri di un nemico implacabile che nei Balcani ha inghiottito per sempre le loro vite.
La 18.ma Divisione Messina è stata creata nel maggio del 1939 ed era costituita dal 93° e dal 94° Reggimento di fanteria e dal 2° Reggimento di artiglieria, ai quali fu aggregata, nel 1942, la 108.ma legione CC.NN. L’organico al 10 giugno del 1940, giorno dell’entrata in guerra dell’Italia, era di 12.979 uomini.
Il 3 aprile del 1941, la Divisione fu dislocata in Albania, nell’imminenza dell’inizio delle operazioni contro quel Regno di Jugoslavia che aveva avviato, contrariamente agli accordi precedenti e alle aspettative dell’Asse, una aperta ed inaspettata politica filo inglese.
Tra il 12 ed il 13 aprile del 1941, la Messina inizia la propria azione offensiva penetrando in Montenegro e occupando Antivari, Cettigne e Càttaro. Dopo la capitolazione della Jugoslavia fu dislocata nella zona di Podgorica, come unica unità divisionale d’occupazione del Montenegro, con numerosissimi presìdi sparsi su tutto il territorio di competenza, ma spesso isolati e mal collegati tra loro, coadiuvati da reparti di Carabinieri, di agenti di Pubblica Sicurezza e di uomini della Guardia di Finanza.
L’area delle Bocche di Càttaro, invece, fu annessa all’Italia come nuova provincia, alle dipendenze del Governatorato della Dalmazia. Su questi territori dalmati, infatti, era fortissima, per storia e tradizioni secolari, la presenza di cittadini di lingua italiana.
Purtroppo le previsioni di una pacifica nostra presenza in Montenegro si rivelarono ben presto errate.
Il 12 luglio del 1941 si riunì a Cettigne l’Assemblea Nazionale Costituente che proclamò l’indipendenza del Montenegro dalla Jugoslavia, creando una Reggenza interinale sotto protettorato italiano.
Dal giorno immediatamente successivo, però, ebbe inizio una parossistica accelerazione di eventi che colse di sorpresa i nostri comandi territoriali, contraddicendo qualunque diversa previsione.
Accuratamente preparata in segreto, infatti, prese forma e si sviluppò velocemente una sollevazione antitaliana ispirata da importanti e noti esponenti clandestini del partito comunista jugoslavo, originari del Montenegro, appoggiati anche, inizialmente, da alcuni ex ufficiali del disciolto esercito jugoslavo.
La rivolta ebbe successo ed in poco più di una settimana i ribelli ebbero ragione di molti dei presìdi italiani sparsi sul territorio, colti di sorpresa e sopraffatti nelle zone interne montuose e nelle campagne, eccezion fatta per le città e le località della costa montenegrina.
Fu un’esplosione di guerriglia inattesa e brutale che portò a scontri cruenti, spesso conclusisi con il massacro di intere guarnigioni italiane, poste a presidio dei territori più isolati.
Quasi sempre gli insorti non fecero prigionieri e quei giorni di rivolta furono caratterizzati da episodi di estrema efferatezza nei confronti dei nostri militari catturati nelle località conquistate dalla guerriglia.
I prigionieri italiani vennero uccisi sul posto, spesso dopo essere stati sottoposti a torture, sevizie e mutilazioni. Stessa sorte toccò agli abitanti dei villaggi dell’entroterra che avevano assunto un atteggiamento di acquiescenza o di simpatia nei confronti degli Italiani.

La Divisione Messina, unica Grande Unità presente in Montenegro al momento della rivolta di luglio, sostenne praticamente da sola tutto l’urto della guerriglia, pagando un altissimo tributo di sangue di cui si è sempre parlato e scritto molto poco. Ma è certo che i numerosi episodi di valore e di resistenza al nemico, spinti sino al sacrificio, conferirono alla Messina il triste primato di Divisione martire, in quella che sarebbe stata la lunga e terribile storia della guerriglia antitaliana nei Balcani.
Come reazione all’insurrezione di luglio, il nostro esercito trasferì in Montenegro, in aiuto alla Messina, sei nuove divisioni: Cacciatori delle Alpi, Emilia, Pusteria, Puglia, Taro e Venezia, sotto il comando del Generale di Corpo d’Armata Alessandro Pirzio Biroli, con funzione di Governatore civile e militare del Montenegro. La reazione italiana causò lo sbandamento delle forze che guidavano l’insurrezione e il ripensamento della componente minoritaria di ispirazione non comunista. L’abilità degli Italiani e del Genenerale Pirzio Biroli, infatti, fu quella di fungere subito da attrattori di quelle forze nazionaliste e monarchiche che già erano o stavano diventando ostili alle frange comuniste che avevano preteso, anche con la violenza interna al movimento insurrezionale, di monopolizzare ed incanalare a loro favore tutta la guerriglia, emarginando o eliminando gli insorti non propensi ad allinearsi alle direttive del partito comunista jugoslavo.
Nasceva così l’alleanza tattica, politica e militare, tra l’Esercito Italiano e buona parte delle forze nazionaliste montenegrine e serbe (i Cètnik, i Cetnici) che avrebbe caratterizzato i successivi mesi di quella guerra, mentre la guerriglia comunista estendeva oramai il suo raggio di azione a tutta la zona Balcanica, sotto la leadership del gruppo dirigente formatosi intorno alla figura di Josip Broz, il futuro Maresciallo Tito.
In questo nuovo scenario, la Divisione Messina continuò le operazioni di controllo del territorio montenegrino sino alla prima metà del 1942, ma nell’agosto di quell’anno fu assegnata in forza al VI Corpo d’Armata e spostata in Croazia, a ridosso delle Bocche di Càttaro, nella zona di Metkovic, sino ai piedi del massiccio del Biokòvo, continuando, anche in questa nuova dislocazione, le operazioni di difesa dei presìdi territoriali contro i partigiani titini, divenuti sempre più forti e aggressivi.
Era una lotta diventata oramai difficilissima e senza esclusione di colpi, poiché i titini conducevano una guerriglia spietata, mirante alla sistematica eliminazione fisica dei nostri militari e di quanti venivano accusati di collaborazionismo con gli Italiani: Cetnici, Croati anticomunisti, milizie territoriali filo italiane, civili non allineati.
Prende forma, in questo periodo, nella Divisione Messina e in altre unità italiane, la prassi di impiegare, a livello di Battaglione e nell’ambito delle compagnie comando, i cosiddetti plotoni esploratori e guerriglieri, unità miste italo-cetniche, comandate da ufficiali italiani, cui era affidato il compito di garantire la sicurezza del Battaglione durante gli spostamenti, le marce di trasferimento e gli stazionamenti notturni in territorio ostile, oltre che la difesa dei presìdi più esposti.
I militari italiani di queste unità spesso vestivano come i Cetnici e le popolazioni del luogo. Indossavano passamontagna di lana, corpetti di pelle di capra ed al posto degli scarponi le rozze opanche che offrivano maggiore appiglio sulle rocce e rendevano silenzioso e veloce il passaggio su terreni boscosi, ripidi e scoscesi, dove era necessario muoversi senza fare rumore.
La notte era il loro regno, ma notte e boscaglia erano anche il regno del nemico. Il rischio di incontrare le troike titine o intere unità in silenzioso spostamento notturno era elevatissimo così come alta era la possibilità di violenti scontri notturni dall’esito incerto, in cui la posta in gioco era la vita stessa degli esploratori, nelle cui mani era riposta la sicurezza del battaglione o del presidio che rischiava di essere accerchiato.
Guerriglia e controguerriglia si affrontavano sullo stesso terreno, spesso con le stesse armi, nel silenzio dei boschi e sotto un cielo stellato che assisteva impassibile al dramma umano che si consumava in terra.

Alla fine di giugno ed ai primi di luglio del ’43 i reparti del 93° e del 94° Reggimento della Messina furono chiamati ad un’ultima importante missione: l’ennesima offensiva sul massiccio del Biokòvo, dove era il centro della resistenza nemica nei Balcani e dove era asserragliato lo stesso Tito con il suo stato maggiore.
Le punte penetranti di questa offensiva furono proprio i reparti esploratori e guerriglieri dei battaglioni impiegati. Fu una lotta aspra per il terreno impervio, la mobilità del nemico e l’importanza che la zona costituiva per la guerriglia titina in tutta l’ampia regione dell’Erzegovina.
Tre giorni di combattimenti violentissimi contro un nemico che, sfruttando abilmente la conoscenza del territorio, riuscì, ancora una volta, a sottrarsi alla manovra di accerchiamento, abbandonando temporaneamente le posizioni. E proprio la battaglia del Biokòvo dell’estate del ’43 vide ancora una volta i reparti della Messina operare con determinazione e coraggio non comune, come testimoniano le numerose ricompense al valore proposte in quei giorni.
E quella del valore sul campo, dimostrato durante tutta la guerra in Montenegro e Croazia, è stata una delle caratteristiche di tutti gli uomini della Divisione martire in territorio di guerra.
Al ricordo dei caduti, si affianca la memoria dei prigionieri che mostrarono- tutti- dignità e coraggio di fronte alla morte orribile inflitta loro dopo la cattura. Tra questi il S.Ten. Carlo Falcinelli, medaglia d’oro al valor militare, appartenente al 93° Reggimento della Messina, torturato e ucciso dopo la cattura presso le Bocche di Càttaro, nel gennaio del ’42, in seguito al suo rifiuto di fornire informazioni al nemico.
E poi, dopo l’ultima battaglia sul Biokòvo, venne l’8 settembre del 1943 e l’annuncio dell’armistizio. La Divisione rimase facilmente intrappolata sul territorio di sua competenza, intorno alle foci del fiume Narenta (meglio conosciuto, nell’iconografia partigiana, con il suo nome croato di Nerètva) perché combatteva proprio fianco a fianco alla divisione corazzata delle Waffen SS Prinz Eugen e a truppe croate alleate dei tedeschi.
Il 93° Reggimento rifiutò di consegnare le armi e riuscì, combattendo, a raggiungere fortunosamente l’isola di Curzola e a imbarcarsi insieme ad altri reparti del VI Corpo d’Armata, per attraversare l’Adriatico e raggiungere la costa italiana tra il 17 ed il 18 settembre.
La sfortuna si accanì, invece, sul 94° Reggimento. Dopo l’annuncio dell’armistizio, il I° Battaglione si attesta a difesa della rotabile in località Nova Selo, per contribuire a difendere il Reggimento dalla manovra a tenaglia della Prinz Eugen. Poi ripiega, per ordini superiori, su Metkovic, mentre la località viene sgomberata dal comando della Divisione e dagli altri reparti lì stanziati. Il ripiegamento di tutto il dispositivo avviene tra scoppi di polveriere, spari ed incendi di magazzini da non far cadere in mano tedesca. Poi i reparti dirigono su Ragusa (l’odierna Dubrovnik) per ordine del Generale Spicacci, l’ultimo comandante della Messina, mentre i reparti tedeschi premevano da Nord e da Est.
Oramai si avvicinava l’epilogo.
Nel disorientamento generale, dopo alcuni giorni di violenti combattimenti, giunse, dal comando del VI Corpo d’Armata, l’ordine di arrendersi e deporre le armi.
Per gli uomini del 94° Reggimento della Messina iniziava una nuova terribile esperienza: la prigionia in Polonia ed in Germania, nei lager di Beniaminovo, Wietzendorf, Sandbostel. Le tappe di un lungo calvario.

Ma questa è un’altra storia, anch’essa tutta da scrivere e raccontare bene e fino in fondo. Il 13 settembre del 1943 la Divisione Messina, la Impetuosa Messanensis Legio, come recitava il motto dei suoi Reggimenti, cessava di esistere dopo la sua ultima disperata battaglia.

Michele Chiodi, già dirigente di istituti finanziari, collabora con periodici e associazioni culturali.