Hikikomori: quando l’isolamento è volontario

Il termine hikikomori viene attribuito allo psichiatra giapponese Tamaki Saito, specializzato in psichiatria adolescenziale: in realtà il vocabolo, che significa stare in disparte, chiudersi, non è stato coniato dal Saito, come erroneamente talvolta viene riportato, sebbene a questi vada il riconoscimento di esserne il maggior esperto a livello mondiale.

In Giappone l’hikikomoro è considerato dal Ministero della salute un fenomeno psico-sociologico le cui caratteristiche principali sono il ritiro dalle attività sociali ed il fatto di rimanere a casa quasi tutti i giorni, mentre i professionisti della salute lo ritengono un vero e proprio disturbo psichico diagnosticabile con il DSM-V.

In Italia tra le città in cui la problematica è stata maggiormente studiata ci sono Arezzo, Milano e Napoli: in Toscana è stato condotto uno studio promosso dal MIUR e dalla scuola; a Milano, presso il Centro Clinico e di Ricerca Il Minotauro, è stato istituito il Consultorio gratuito per gli adolescenti ritirati che abusano delle nuove tecnologie; nel capoluogo campano la U.O.P.A. (Unità Operativa di Psicopatologia degli Adolescenti) ha dedicato ampio spazio allo studio e al controllo dei giovani che volontariamente si chiudono al mondo esterno.

I dati raccolti nelle tre città sono praticamente sovrapponibili e l’identikit dell’hikikomoro è quello di un adolescente (ma si registrano casi anche nella fascia pre-adolescenziale ed in quella adulta) generalmente di sesso maschile, che trascorre gran parte della giornata chiuso nella propria camera dedicandosi ad attività solitarie (lettura, disegno, internet, videogiochi…) e cumulando giorni di assenza a scuola. Non sono emerse comorbilità con DSA (Disturbi Specifici dell’Apprendimento) o con altri disturbi della sfera relazionale. Spesso l’hikikomoro possiede uno o più animali da compagnia e vive in un clima familiare conflittuale. Il fenomeno ha un andamento progressivo e passa da una fase meno grave e più facilmente reversibile (il primo stadio) ad una meno trattabile (il secondo stadio) fino a quella più seria e grave (il terzo stadio).

L’hikikomoro non si chiude tra le quattro mura della sua stanza per evitare di recarsi a scuola o a lavoro (quando riguarda gli adulti), quanto piuttosto per cercare di difendersi dal confronto con il contesto sociale (sia esso quello scolastico, amicale, lavorativo, familiare) di fronte al quale si vede inadatto e sofferente.

Spesso la scelta dell’autoreclusione è la risposta al non sentirsi pronto a diventare adulto o al sentirsi un adulto inadeguato.

Sebbene possa sembrare che il vissuto dell’hikikomoro sia molto simile a quello dell’eremita, in realtà tra i due ci sono poche, ma sostanziali differenze: l’hikikomoro, infatti, a meno che non si tratti di casi molto gravi e fortunatamente rari, si isola fisicamente dalla realtà circostante, ma con essa resta in continuo contatto attraverso la televisione, i social, internet e così via, al contrario dell’eremita che vive completamente isolato dal resto del mondo privandosi di qualunque tipo di contatto, anche solo virtuale, con esso. Gli hikikomori, inoltre, pur isolandosi, non rinunciano alle comodità della vita moderna come, invece, fanno gli eremiti che consacrano la loro solitudine al raggiungimento dell’ascesi.

Da uno studio condotto dal Gruppo Abele in collaborazione con l’Istituto di Fisiologia Clinica del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Pisa è emerso che in Italia attualmente ci sono centinaia di migliaia di hikikomori ed il numero è destinato a crescere, dunque si parla di un fenomeno che, se fino a qualche anno fa era marginale, oggi sta assumendo dimensioni sempre più importanti, forse anche a causa delle recenti vicende pandemiche.  Viene spontaneo, infatti, chiedersi quanto la pandemia e il lockdown abbiano potuto influire sull’aumentare della reclusione volontaria.

Probabilmente l’impatto è stato notevole, per diversi motivi: chi era già predisposto all’isolamento, durante il confinamento prodotto dal Covid potrebbe avere assaporato e apprezzato la possibilità di trascorrere intere giornate nella rassicurante solitudine della propria stanza rimanendoci anche quando avrebbe potuto uscirne; chi era già un hikikomoro potrebbe aver goduto di vedere anche gli altri isolati in casa con pochissime (e controllate) possibilità di andare fuori; ancora, il contraccolpo di vedere gli altri finalmente liberi, quando il lockdown è finito, potrebbe aver prodotto un aggravamento in chi si era volontariamente isolato, conducendolo paradossalmente in cerca di ulteriore rifugio rispetto al mondo che ha ripreso a vivere e con il quale, purtroppo, continua a non avere la forza di confrontarsi; l’impatto della pandemia sugli hikikomori, in sintesi, potrebbe aver prodotto l’aumento del numero dei casi da una parte e l’aggravamento dei casi già esistenti dall’altro.

Riuscire a riportare alla socialità chi deliberatamente ha deciso di privarsene non è facile né tantomeno scontato.

Chi ha assaporato la possibilità, per quanto malsana, di dare voce al suo silenzio attraverso l’isolamento, difficilmente accetta di recuperare il suo posto tra gli altri e di viverlo con pienezza: occorre fornirgli motivi validi per tornare nella mischia, occorre infondergli fiducia rispetto alle sue potenzialità, occorre fargli capire che, anche senza di lui, certo il mondo continuerà la sua corsa, ma che lui, restando ai confini, non avrà più la possibilità di dimostrare di non essere un perdente… occorre convincerlo, con forza, impeto e veemenza, di avere tanto da prendere, ma pure tanto ancora da dare e che là fuori la vita, per quanto possa apparire difficile e complicata, ostinatamente lo aspetta.

Rosa Maria Bevilacqua, Sociologa, A.O.R.N. “San Giuseppe Moscati”- Avellino, Delegata alla Sanità ASI (Associazione Sociologi Italiani)

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