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I Papi e il vino

Se Dio avesse proibito il vino perché l’avrebbe fatto così buono?

Questa considerazione è stata fatta propria dagli Ordini religiosi che ricordando anche le parole di Gesù del Vangelo secondo Giovanni: “Io sono la vite, voi i tralci” hanno dato impulso allo sviluppo della cura dei vitigni.

L’importanza che hanno avuto, dopo la diffusione del Cristianesimo, gli Ordini monastici nell’attenzione verso il vino per la celebrazione della messa (il sangue di Cristo) è stata fondamentale per la coltura delle viti:

i primi ad innestarli furono i Benedettini, Ordine di cui avrebbe fatto parte Dom (ovvero Dominus, nome dato ai monaci benedettini) Perignon nel 1600 cui è attribuito il metodo di lavorazione dello champagne e l’intuizione del tappo di sughero con la gabbietta. 

San Benedetto stesso beveva vino, tanto è vero che sfuggì ad un attentato da parte di due monaci che gli avevano versato veleno nella coppa, miracolo rappresentato negli affreschi dal Sodoma nel meraviglioso convento di Monte Oliveto Maggiore, vicino Siena e in quelli del Solario nel ciclo del Chiostro del Platano all’interno del Grande Archivio a Napoli.

Il vino doveva essere già buono se crediamo alla leggenda che narra che nel 1111, Enrico  di Franconia scese a Roma per essere incoronato, dal Papa, imperatore del Sacro Romano Impero, accompagnato da dignitari e religiosi fra i quali il Duca-Vescovo Johannes Defuck (o Fugger).

Questi, amante del vino, mandò in avanscoperta il suo servo, lungo il percorso per Roma, affinché segnasse le mura dell’osterie con il vino buono scrivendo la parola Est ovvero “c’è”.

Arrivato a Montefiascone il servo scrisse, dopo aver sorseggiato il vino, Est, Est, Est.: aveva trovato un vino veramente eccezionale!

Quando il Vescovo arrivò lì e lo bevve non continuò più il viaggio e rimase qualche mese a mangiare e a bere fino alla sua morte. Il servo gli fece costruire una tomba nella chiesa di San Flaviano con la incisione che ricordava la sua passione per il vino: Defuck lasciò i suoi beni al paese a condizione che ogni anno fosse versato un barile di vino sulla sua tomba, ma nel 1700 questa bella tradizione fu eliminata da un vescovo probabilmente astemio!

Nel 1200 il vino si raffina, è più ricercato, e invade le osterie e le mense, soprattutto quelle ecclesiastiche e dei Signori.

Dante non parla molto del vino nella Commedia, forse perché lo riteneva fonte di eccesso e quindi di peccato, ma un riferimento lo fa quando, nel Canto XXIV del Purgatorio, fra i golosi, colloca Papa Martino IV amante delle anguille di Bolsena e della Vernaccia (probabilmente quella di San Gimignano ). 

Se Dante parla poco del vino, così non si può dire di  Boccaccio, che ne parla nel Decamerone nella novella di Cisti il fornaio, in quella di Calandrino e l’elitropia (quando nel paese di Bengodi scorrono fiumi di Vernaccia), e ancora in quella di Ghino di Tacco che, avendo rapito l’abate di Cluny, lo guarisce dal mal di stomaco, dandogli da mangiare pane e Vernaccia.

Innocenzo III, a seguito del dilagare del vino e dei suoi effetti, dichiarò l’ubriacatura peccato mortale, infatti lui lo beveva moderatamente.

Anche Bonifacio VIII, nato ad Anagni, beveva vino, quello delle sue zone, il Cesanese del Piglio.

Dopo la sua morte la Sede Papale fu trasferita da Roma ad Avignone, il che dal punto di vista enologico fu una fortuna perché i papi francesi prestarono molta attenzione alla viticoltura che, associata all’operosità dei Cistercensi, dette vita a grandi vini in tutta la Francia.

Avignone apparteneva agli Angioini di Napoli e i Papi l’acquistarono nel 1348 per 80.000 fiorini dalla Regina  Giovanna I°. 

Finita la Cattività Avignonese nel 1377, i Papi rientrarono a Roma e nel 1406 Papa Gregorio XII elaborò gli Statuti di Agricoltura, una specie di calendario ad uso dei provetti viticoltori sui tempi e modi per lavorare l’uva.

Il vino tornò ad essere apprezzato anche in Vaticano e in occasione del Concilio di Cividale del Friuli, tre anni dopo, a Papa Gregorio XII fu offerto un Verduzzo friulano che il Pontefice gradì molto.

Quando Orvieto entrò a far parte dello Stato pontificio vi dimorarono diversi Papi, che apprezzarono la bontà di quel vino bianco e Luca Signorelli, che ha dipinto molti affreschi  nel Duomo di Orvieto, inserì nel contratto, come parte della retribuzione, che gli venissero garantite un migliaio  di bottiglie di vino ogni anno.

Nel 1438 Papa Eugenio IV, ritenendo maturi i tempi per una riunificazione della Chiesa Romana con quella Ortodossa, convocò un Concilio a Ferrara, per poi spostarlo a Firenze (ufficialmente perché nella città estense c’era qualche caso di peste, ma più probabilmente perché l’ospitalità degli Este era modesta rispetto a quella che invece offrivano i Medici). I delegati greci furono ricevuti con tutti gli onori da Cosimo dei Medici e arrivarono a Firenze con uno spettacolare corteo, che rimase talmente impresso nella memoria che Benozzo Gozzoli, venti anni dopo, lo rappresentò nel bellissimo affresco della Adorazione dei Magi. Furono otto mesi di divertimenti e banchetti e nel corso di uno di questi, bevendo un vino toscano, il metropolita di Nicea, Bessarione, esclamò “è un vin Xanto”, alludendo alla somiglianza di quel vino con quello dell’isola greca: i Fiorentini non capirono il riferimento,lo presero come una benedizione e decisero quindi di chiamarlo da allora Vin Santo.

Lorenzo il Magnifico esalta il vino nel suo Trionfo di Bacco e Arianna: il vino era allegria, gusto, poesia e la famiglia Medici rifornì di Brunello di Montalcino la mensa dei suoi parenti eletti Papi: Leone X e Clemente VII.

Proprio ai tempi di Clemente VII si cominciò  ad usare la parola Brindisi: secondo la versione dotta, questa usanza nacque quando Carlo V portò le guerre in tutta Europa, avvalendosi della dirompente forza dei soldati Lanzichenecchi. Questi per festeggiare le vittorie offrivano vino ai loro alleati spagnoli dicendo “bring’ d is”, te lo offro, e quelli trasformarono la parola,alzando il calice, in “brindis.

Secondo una versione più leggendaria, invece, la parola ha avuto origine al tempo dei Romani, quando i giovani eredi delle famiglie nobili si imbarcavano a Brindisi per andare in Grecia ad approfondire la propria cultura: al momento della partenza alzavano un bicchiere di vino e salutavano amici e parenti.

Questa abitudine piacque alle popolazioni mediterranee ed allora si disse : “perché  quando ci salutiamo in allegria non facciamo come fanno a Brindisi?

Un altro papa, vero gourmet, fu Paolo III Farnese: era un grande intenditore tanto che il suo bottigliere, un sommelier insomma, il Lancerio, elencò i vini bevuti da Paolo III per ciascuno dei quali il Pontefice esprimeva le sue opinioni da competente, vini che gli fecero bene perché visse fino ad 81anni.

Il medico del terribile Sisto V, poi, scrisse un libro sui vini, il “De naturalis historia vinorun”: il vino era tanto apprezzato dal papa che per impedirne la sofisticazione ordinò che tutte le bottiglie fossero trasparenti.

Gli osti spesso erano imbroglioni e mettevano strane miscele in bottiglie scure: per chi avesse violato le disposizioni erano previste pene severissime.

Il vino trionfava ovunque ormai, come si può vedere nell’Arte fiamminga nelle scene di matrimoni e feste di Bruegel o nelle visioni drammatiche della Nave dei folli di Bosch.

In Spagna Velasquez dipinge I Bevitori, il Veronese lo pone in evidenza nei suoi grandi quadri a tema biblico, Caravaggio dipinge il suo Bacchino malato e un altro splendido Bacco e Rubens che era venuto in Italia per studiare Caravaggio se ne tornò ad Anversa con un bel carico di Marsala.

Il ‘600, poi, è l’epoca dei quadri che rappresentano nature morte, in cui uva e vino non mancano mai.

Leonardo stesso nel Codice Atlantico descrive i forti vini della Valtellina; una curiosità: nel suo affresco dell’Ultima Cena di Milano, sulla tavola imbandita non c’è il Calice del vino! Perché? Perché la scena riproduce l’Ultima Cena descritta nel Vangelo di San Giovanni,in cui non si parla del pane e del vino come avviene negli altri tre Vangeli.

C’era tanta abbondanza di vino che, quando furono eletti nel 1644 Innocenzo X e nel 1670 Clemente X, i leoni del Campidoglio ne sprizzavano una tale quantità che il popolo correva con tazze e fiaschi.

Un altro papa, Urbano VIII, Barberini, per costruire la piazza ed una fontana, quella di Trevi, vicino al suo palazzo,  aveva bisogno di danaro e mise una tassa sul vino per realizzare il suo progetto: il popolo protestò, la tassa fu ritirata e dovranno passare quasi altri 100 anni per costruire la fontana.

Intanto le esplorazioni e le navigazioni avevano fatto conoscere Nuove Terre ed i religiosi portarono con loro le viti da trapiantare nelle Americhe per celebrare messa in quei territori appartenenti alle Corone di Spagna e Portogallo: i Francescani li portarono addirittura in California.

Più tardi ci fu un Papa, Gregorio XVI, che amava così tanto il Frascati che fu soprannominato Gregorio…Bevo in contrapposizione scherzosa con l’altro grande  Papa Gregorio Magno.

Leone XIII, che alla fine del secolo scorso scrisse la “Rerum novarum”, la prima enciclica sociale, era un bevitore di vino misurato e gradiva molto il Vin Mariani; l’apprezzamento per tale vino era tale che il ritratto del Papa apparve come testimonial su alcuni manifesti ed inserzioni che Mariani aveva pubblicato per far conoscere il prodotto. Questo vino era una bevanda a base di vino e foglie di coca! Prodotto in Francia era composto da 60 grammi di Coca del Perù lasciata macerare 10 ore prima nel Bordeaux e poi nel cognac più 6% di zucchero per mezzo litro.

Leone  XIII non fu l’unico personaggio illustre a berlo, infatti altri clienti erano lo Zar di Russia, il Presidente degli Stati Uniti, il principe di Galles, Zola, Sarah Bernard.

Era un vino medicinale: il Vino tonico Mariani alla Coca del Perù.

Dopo Papi virtuosi come Pio XI e Pio XII, arrivò al soglio pontificio Angelo Roncalli, Giovanni XXIII, di provenienza contadina, che amava sedersi a tavola in Vaticano e bere moderatamente con parenti, amici e ospiti illustri che aveva conosciuto durante gli anni della sua carriera diplomatica.

La sua semplice estrazione sociale lo portava spesso a familiarizzare con gli operai che lavoravano in Vaticano con i quali qualche volta si tratteneva a mangiare.

L’attuale pontefice Francesco è  quasi astemio (diceva un umorista: l’astemio è un debole che cede alla tentazione di negarsi un piacere), ma continua a ricevere omaggi di cassette di vino da tutto il mondo.

Il vino è grazia di Dio (se bevuto misuratamente) e non bisogna fare come il Barone Rothschild che mandò a Rossini, in omaggio, alcune cassette di uva delle sue famose vigne: “Grazie rispose il grande musicista, ma io non sono abituato a prendere vino in pillole!”.

Sergio Giaquinto, Giurista, già Dirigente Amministrativo dell’A.O. dei Colli, cultore di Storia e Archeologia

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