La viroterapia oncolitica è un campo emergente dell’oncologia. È un tipo di nanomedicina in cui virus oncolitici (OVs) sono intenzionalmente utilizzati per infettare, riparare o distruggere cellule tumorali. Alcuni OVs manifestano una naturale predilezione (tropismo) per le cellule cancerose, mentre altri virus per funzionare al meglio richiedono prima modifiche genetiche effettuate in laboratorio, finalizzate ad aumentare le loro capacità di riconoscimento, legame e ingresso nelle cellule tumorali bersaglio. Gli OVs riescono sia a uccidere le cellule tumorali che a indurre una risposta immunitaria dell’organismo contro il tumore stesso. Per funzionare, un virus oncolitico necessita quindi di riconoscere la cellula bersaglio, entrare in essa, integrarsi con i sistemi molecolari della cellula ospite, lisare il tumore e attivare il sistema immunitario dell’individuo ospite. Se uno qualsiasi di questi passaggi va storto, il rischio è non solo l’inefficacia della terapia, ma anche possibili effetti deleteri sull’ospite di spropositata attivazione del Sistema Immunitario, con tempeste citochiniche. Trattandosi di terapie con medicine vive, ogni sforzo dev’essere compiuto affinché il virus modificato in laboratorio non abbia né acquisisca la capacità di ricombinarsi in maniera tale da contagiare e infettare altri individui.

Benvenuti nell’era della manipolazione genetica d’informazioni biologiche trasmissibili, dove solo la bioetica può fissare validi confini per la scienza e la tecnica!
In definitiva, possiamo pensare ai virus come a nanoscopici esseri posti al confine della vita e sull’orlo del caos, e come a temibili ma eleganti involucri biologici che l’evoluzione ha costruito con gli avanzatissimi mattoncini della biochimica organica e della proteomica, che al proprio interno trasportano il testimone d’informazioni biologiche di natura perlopiù sconosciuta all’attuale conoscenza umana.
Tanti virus, soprattutto quelli di tipo influenzale e parainfluenzale, sono da sempre stati abitudinari ospiti e parassiti nelle nostre stagioni autunnali e invernali; altri comuni virus li abbiamo ospitati durante l’infanzia come ubiquitarie malattie esantematiche; poi sono arrivate le strategie vaccinali, e con la loro irruzione nella pratica della Medicina di Comunità si è riusciti a stabilire una immunità dell’ospite umano verso specifici virus, salvando milioni di vite umane. È nella memoria storica della nostra società la strage che fece la Spagnola tra il 1918 e il 1920.
In questi ultimi mesi, a causa della presente pandemia da nuovo Coronavirus, stiamo sperimentando in diretta e tragicamente il potenziale distruttivo di tali invisibili esseri, sia per quanto attiene la loro diretta patogenicità medica – portatrice di malattia e morte – sia per quanto attiene al loro critico corredo secondario, apportatore di caos sociale e foriero di disastri economici delle moderne società tecnologiche e scientifiche.

Nell’ambito delle biotecnologie più avanzate, e fin da quando questi nanobioti sono entrati nei laboratori umani e noi umani abbiamo imparato i primi rudimenti di manipolazione, i virus sono stati il nostro veicolo di geni preferito. Abbiamo imparato a modificare e ammaestrare alcuni virus, impacchettando al loro interno (pakaging virale) del materiale genetico utile per curare temibili malattie. Una volta scoperta la possibilità di utilizzare tali nano-esseri come veicolo vivo di informazioni biologiche trasmissibili a cellule e organismi, i virus possono essere visti come un’arma simile a quelle create nella serie di videogame Resident Evil dalla Umbrella Corporation. Se saltiamo nella dimensione della fantascienza, gli scenari possibili seguono una diramazione combinatoria di tipo esplosivo, con le infinite vie che la fantasia ci apre e ci fa intravedere; ma poi, se torniamo giù, ci accorgiamo che i rapidi progressi scientifici e tecnologici renderanno ben presto percorribili infinite vie che solo la bioetica potrà tenere in custodia. Gli scenari della fantasia sono innumerevoli e si può spaziare dal creare dei supersoldati e dare loro forza e vigore – come avviene nel citato videogioco Resident Evil – alla possibilità di future guerre bio-tecno-organiche, a qualsiasi altro avveniristico utilizzo dei virus come vettore biologico d’informazioni.
Per contro, gli scenari della scienza e della tecnologia umana, attualmente disponibili in questo campo, sono più limitati ma pure in rapida crescita ed espansione: la nostra più prossima frontiera è l’utilizzo dei virus finalizzato a estirpare pericolosi e sgraditi ospiti e parassiti tissutali, quali ad esempio possono essere considerati i tumori o i batteri multiresistenti agli antibiotici.
Calandoci nella fantastoria di Resident Evil, dove il virus Progenitor (anche noto come Virus Madre) fu il primo virus mutagenico mai scoperto, e divenne la base dalla quale l’Umbrella Corporation iniziò la fruttuosa ricerca, durata decenni, per creare una potente arma biologica vivente e condurre guerre bio-organiche (BOW – Bio Organic War). Per tale motivo il Virus Madre divenne la base per la creazione di ceppi varianti a uso militare; nella saga videoludica, Progenitor fu identificato da Lord Edward Ashford, da Lord Ozwell E. Spencer e dal Dr. James Marcus, in uno dei loro viaggi esplorativi in Africa, dopo aver scoperto l’esistenza di un fiore speciale chiamato Scala verso il Sole; secondo le locali leggende, Scala verso il Sole era infettato da un antico virus in grado di donare, alle persone che ne mangiavano, forza e vigore ovvero morte. Nella tradizione della tribù locale che conosceva il fiore, l’elezione del re non avveniva per via ereditaria a seguito di una prova d’iniziazione: bisognava cibarsi del fiore e sopravvivere alla sua naturale tossicità. A coloro che fossero risultati naturalmente immuni, oltre alla sopravvivenza, il virus conferiva anche superpoteri. Fu così che i ricercatori/esploratori, convinti delle sue proprietà speciali, decisero di raccoglierne un campione; una volta in possesso del fiore, la squadra di ricercatori assoldata da Spencer fu in grado d’isolare il virus Progenitor; negli anni seguenti, presso il loro laboratorio di ricerche si continuò ad approfondire lo studio sul virus. Il Dr. James Marcus, che portava avanti la sperimentazione, fondò con gli altri due soci la Umbrella Corporation; nella company, Spencer teneva però occultate le vere finalità di ricerca: il Dr. Marcus era infatti interessato agli effetti che il virus avrebbe prodotto grazie all’infezione dei diversi organismi; Spencer pianificava di utilizzare il virus per applicazioni militari; Ashford cercava di portare progressi medici e scientifici attraverso la conoscenza del virus Progenitor.
Identificato e studiato, si poté classificare Progenitor tra i virus a RNA, e il suo effetto sul codice genetico degli ospiti mammiferi, uomo compreso, era di determinare rapide e incontrollabili mutazioni che per loro natura non erano sufficienti a produrre esperimenti efficaci. Per contro, negli ospiti con una struttura genetica meno complessa, come insetti e anfibi, spesso si manifestavano cambiamenti biologici, in particolare un incremento dell’aggressività e una rapida crescita. Ma tali risultati non erano adatti per i piani della Umbrella Corporation, poiché davano come risultato sperimentale dei soggetti non idonei a essere usati come armi bio-organiche.

Ma è ormai tempo di tornare nel mondo reale, dove i nostri ricercatori, rispetto alla Umbrella Corporation, pure hanno una guerra molto dura da combattere, e sicuramente più sacra: quella contro i tumori.
È ormai da un po’ che conosciamo specie virali con particolare tropismo per determinate cellule e tessuti; si tratta di specie di virus tessuto-specifici che hanno un particolare appetito per certi tipi cellulari e non per altri. Un esempio è rappresentato dal comune Herpers Simplex Virus (HSV), che pur possedendo un naturale tropismo sia per cellule neuronali che non-neuronali, ha una spiccata predilezione per le cellule dei tessuti epiteliali e neuronali. Stesso tropismo lo ritroviamo in tutte le famiglie di virus ricombinanti (ossia assemblati in laboratorio dall’uomo) che derivano dall’HSV, comprese quelle esotiche specie costruite dall’uomo in qualità di farmaci antitumorali che già oggi sono in grado, comportandosi come una vera arma virologica, di riconoscere e distruggere specifiche cellule tumorali piuttosto che cellule sane. Ma come facciamo a riconoscere e agganciare solo le cellule tumorali? Oggi basta modificare le molecole di riconoscimento dello specifico virus, che così riusciranno a riconoscere e attraccare solo quelle particolari cellule dotate dello specifico recettore. Molti virus sono infatti dotati di un rivestimento proteico che, mentre li protegge dai meccanismi di difesa delle cellule attaccate dal virus stesso (quali ad esempio nucleasi e miRNA), consente loro anche di associarsi a specifici recettori superficiali cellulari, così da permettere l’ingresso dello specifico virus nella specifica cellula ospite. Avviene così che solo i virus dotati di ponti d’attacco a specifici recettori cellulari possono infettare il tipo cellulare Target: se non c’è il recettore cellulare o il ligando virale per il recettore, allora non può avvenire l’infezione virale.
Come facciamo a distruggere una cellula tumorale con un virus?
Be’, nel caso della cellula tumorale, per acquisire i caratteri dell’aggressività questa ha dovuto subire dei processi di alterazione genetica che l’hanno trasformata in cancerosa. In particolare, la cellula tumorale avrà dovuto bloccare quelle vie biochimiche che, in caso di alterazioni genomiche, portano una normale cellula a un suicidio programmato e a un blocco della replicazione. In tal caso il nostro virus, anziché distruggere la cellula bersaglio, potrà inserire nella cellula tumorale ospite un particolare gene che renda nuovamente percorribile quella strada biochimica che era stata spenta. L’esempio più eclatante di una tale possibilità di terapia genica antitumorale trasdotta da un vettore virale è rappresentato dal ripristino della funzione della molecola codificata dal gene p53. Possiamo pensare a p53 come a un controllore generale di tutti i sistemi di regolazione delle cellule sane, che è pressoché invariabilmente spento nelle cellule tumorali aggressive. Una volta che, grazie alla terapia oncovirale, quel gene sarà nuovamente presente in forma sana, nella cellula tumorale saranno ripristinati quei necessari meccanismi di controllo che permettono di reagire contro i mutamenti del genoma.
Un’importante Company farmaceutica internazionale ha di recente annunciato di aver siglato un accordo, per circa 394 milioni di dollari, che prevede l’acquisizione di una compagnia specializzata in immunoterapie oncolitiche, che ha in corso di valutazione in una serie di studi clinici di fase 1 e 2 anche in combinazione con l’immunoterapia anti-tumorale. Infatti oggi in campo oncologico appare promettente un approccio che mira a coinvolgere il sistema immunitario sia innato che adattivo per uccidere le cellule cancerose. Tra i tumori attaccabili dalla combinazione di immunoterapia e viroterapia si stanno già studiando melanoma, tumore della prostata, del polmone, della vescica e tanti altri.
È questa la nuova frontiera della lotta al cancro, basata sulla somministrazione a scopo terapeutico di virus che infettano le cellule tumorali.
Sapremo addomesticare e cavalcare la tigre?

Beniamino Casale, responsabile IPAS Terapie Molecolari e Immunologiche in Oncologia – AO dei Colli – Ospedale Monaldi