Per gli appassionati di cinema della mia generazione e di quella che precedente dei baby boomer, la parabola del western è stata completa ed emblematica dei cambi di prospettive e punti di vista. Siamo partiti dal mito cinematografico della frontiera che ha preceduto i western politicamente corretti per arrivare allo spaghetti western e poi al tanto variegato western moderno. Nel lungo viaggio attraverso il cambiamento di costumi, sensibilità, valori e culture dominanti, abbiamo visto pellicole con i bianchi buoni contro i pellerossa cattivi, poi gli indiani buoni contro i visi pallidi cattivi; ancora, lo sceriffo integro contro gli assalitori della diligenza o lo sceriffo corrotto contro lo straniero liberatore; i nordisti democratici buoni contro i sudisti schiavisti cattivi; abbiamo imparato i nomi di tutte le tribù dei nativi americani (Cheyenne, Sioux, Navajo) e quelli di tanti luoghi topici (Juma e Dallas); abbiamo familiarizzato con ambientazioni quali fortini, ranch, saloon, prigioni, bivacchi, tende, accampamenti e villaggi.
Impossibile che quelli della generazione precedente alla mia, e altrettanto difficile che quelli della mia generazione, da piccoli non abbiano mai giocato a indiani e cowboy! Chi di noi, per sentirsi un eroe, a Carnevale non si è vestito almeno una volta col cappello da cowboy, il cinturone con la pistola e la stella da sceriffo? E chi, per sentirsi libero e selvaggio, non ha indossato una corona di penne ingaggiando combattimenti con pugnale, arco e frecce?
Poi è finalmente venuta l’epoca del disincanto: film come Soldato blu, Piccolo grande uomo e Balla coi lupi ci hanno aperto a una lettura nuova, dove gli indiani sono finalmente divenuti nativi americani e non più i cattivi per definizione.

A completare la Trilogia del dollaro del grande regista Sergio Leone, nel 1966 esce Il buono, il brutto, il cattivo, film memorabile dove la ripartizione dei valori in gioco non avviene su due, bensì su tre personaggi, e dove ciascuno di essi mette in campo una complessa coesistenza di bellezza e bruttezza, umanità e ferocia, avidità e generosità. Pur ambientato nel contesto storico della guerra di secessione americana, i tempi dell’azione scenica non sono quelli della mitizzata epopea western apportatrice di civilizzazione e valori contro barbarie e violenza, ma quelli di una denuncia e demistificazione della guerra, dei pregiudizi e dei valori di un occidente falsamente civilizzatore. Sulla scena si muovono personaggi motivati più dall’avidità che dal buonsenso. Clint Eastwood interpreta in maniera nuova e complessa il cliché dell’uomo senza nome: ora l’eroe è ambiguo, è sì un giustiziere ma anche un cacciatore di taglie. Grazie anche al sapiente uso musicale del compianto Ennio Morricone, è rimasta memorabile la scena finale del triello, o stallo alla messicana, ossia quella situazione nella quale più persone si tengono sotto tiro a vicenda, con l’impossibilità di attaccare un avversario senza essere a propria volta attaccate; in una situazione del genere è vitale saper bilanciare potenziali premi e danni.
Per tutti quelli che si sentono pronti ad abbandonare la via lineare e semplice del duale o delle divisioni binarie tra bianco e nero, buono e cattivo, tutto o niente, c’è la possibilità del salto nella dimensione del complesso e apparentemente caotico. Questa è la vera dimensione della vita. Solo ora la scienza inizia a costruire e affinare rudimentali strumenti per navigare in questo plasma dove yin e yang non solo s’inseguono all’infinito, ma pure si mischiano in innumerevoli sfumature di grigio e tonalità di colore.
E allora, con in mano e in testa questo nuovo strumento d’indagine e conoscenza, proviamo a fare il salto dal cinema alla biologia, dai film al surreale momento storico che stiamo vivendo. Continuiamo a parlare di buoni e cattivi ma proviamo a osservare da prospettive nuove i virus, questi esseri descritti nel 1990 da Rybicki come organismi ai margini della vita. Immaginiamo un triello in cui siano coinvolti gli esseri umani, i virus, la sopravvivenza dell’ecosistema.
Siamo pronti ad abbandonare l’ortodossia dei biologi, che ancora tiene in bilico i virus tra il mondo della vita e quello della chimica organica? Siamo pronti a una discussione che non dia per scontato che i virus siano necessariamente patogeni? Siamo pronti ad accoglierli nella nostra vita?
L’etimologia del termine virus deriva dal latino, e significa veleno. Anche il termine farmaco ha medesimo significato: deriva dalla parola greca pkarmakon e significa appunto veleno, rimedio, capro espiatorio. Farmaco e virus rappresentano il topos che coinvolge l’uomo in un triello.

Sappiamo davvero poco dei virus. Se per esempio prendiamo il Mimivirus, scopriamo che al microscopio elettronico ha la forma di un cristallo più che di una cellula, un’architettura strutturale icosaedrica, ma anche una serie di geni e funzioni che vanno a rompere il dogma biologico che vede i virus come parassiti obbligati; infatti Mimi ha un apparato per la sintesi proteica identico a quello degli esseri che classifichiamo viventi; inoltre, a differenza della maggior parte degli altri virus noti, Mimi è un gigante che ha addirittura 1262 geni, di cui ben 450 completamente ignoti alla biologia prima del 1992. Si riteneva infatti che il virus non fosse patogeno per gli esseri umani, e lo si manipolava con un basso livello di biosicurezza. Nel 2004 un tecnico del laboratorio di Marsiglia dove si studiava Mimi si ammalò di polmonite, gli esami mostrarono che l’infezione era sostenuta dal Mimivirus, così da allora lo si studia con un livello di attenzione leggermente superiore (Livello di Biosicurezza 2). Mimi è ritenuto una fonte di conoscenza importantissima per la biologia e l’archeobiologia, in grado forse di collegare l’ultimo antenato comune universale di tutte le specie viventi con il mondo dei virus e quello della chimica.
Oggi stiamo imparando a conoscere meglio i virus, e si sta facendo strada l’idea che possano essere la principale fonte d’innovazione genetica esistente al mondo (Luis Villareal, Direttore del Center for Virus Research della University of California di Irvine) assieme alle mutazioni genetiche a cui anche gli stessi virus sono sottoposti.
La spedizione biologica Sorcer II, analizzando della comune acqua marina, ha trovato – nel mar dei Sargassi, al largo delle Bermuda – milioni di virus mai conosciuti prima dall’uomo.
E se fino a pochi decenni fa i virus erano considerati una stranezza della chimica organica e un problema per la salute degli esseri viventi, oggi c’è una nuova visione, non semplicistica e con minori preconcetti. Per esempio, è finalmente chiaro che possono essere utilizzati come farmaco, dando piena espressione alla ricchezza semantica della propria denominazione.
Nel 1988 il Dr. Patrick Lee, della Calgary University, sulla prestigiosa rivista Science dichiarò che un Reovirus relativamente innocuo per l’uomo era in grado di riconoscere in maniera selettiva le cellule che avevano un gene Ras mutato, ossia tutte quelle che portano una comune mutazione responsabile di melanomi, linfomi e cancro a seno, prostata, colon, ovaio, cervello. Da allora la ricerca sui virus oncolitici (OV) è divenuta un’area di ricerca medica sperimentale particolarmente attiva. Dopo oltre due decenni di tentativi da parte dei ricercatori di sviluppare virus attenuati per uccidere il cancro, uno di questi è stato recentemente approvato come primo farmaco terapeutico nel campo della terapia oncovirale. Si tratta di un virus derivato dal comunissimo Herpes Simplex, opportunamente indebolito e denominato T-VEC. La sua sicurezza, l’affinità per le cellule tumorali e il fatto che i pazienti possano essere trattati più volte senza che il loro sistema immunitario lo blocchi, rendono questo Oncovirus una delle alternative più promettenti a trattamenti quali chemioterapia e radioterapia in pazienti con melanoma.
Un team finanziato dal CER ha dimostrato come gli Oncovirus derivati dall’Herpes Simplex (oHSV) siano estremamente efficaci nello stimolare la risposta immunitaria antitumorale rendendola molto più reattiva alla moderna immunoterapia oncologica con inibitori dei checkpoint immunitari. Anche se mancano ancora studi clinici, gli oHSV diversamente orientati potrebbero potenzialmente essere combinati con le cellule immunitarie dei linfociti T ingegnerizzate con recettore dell’antigene chimerico (CAR-T cells) per la lotta ai tumori solidi e del sangue; infine, gli oHSV, opportunamente modificati per riconoscere altri recettori del cancro, potrebbero diventare un’arma contro i tumori di mammella, ovaie, stomaco, polmoni, pancreas, colon-retto, testa-collo.
Ecco quindi che da un patogeno riusciamo a trarre la cura per malattie tanto infauste e temute.

Ma cosa succederebbe se lo stesso virus, a causa di mutazioni, ricombinazioni o manipolazioni, invece di riconoscere le cellule del cancro iniziasse a riconoscere, attaccare e uccidere, normali cellule del nostro organismo, anche stavolta senza la possibilità per il nostro Sistema Immunitario di riconoscere e/o spegnere l’infezione? E cosa sappiamo davvero del nuovo Coronavirus, oltre al fatto che ha causato la pandemia da COVID-19? Da dove viene? Com’è emerso alla dura storia della lotta per l’esistenza? Abbiamo approfondito la sua capacità elettiva di riconoscere e infettare alcune cellule particolari del nostro organismo, tra cui cellule staminali polmonari? Sappiamo qualcosa circa significato, portata e possibili sviluppi della sua capacità di attivare in maniera così prepotente il Sistema Immunitario, tanto da scatenare in alcuni individui una tempesta infiammatoria o storm citochinico, simile a quanto si verifica a volte mentre curiamo con straordinario successo i nostri pazienti con tumore mediante l’immunoterapia con inibitori dei checkpoint o con le CAR-T cells?

Beniamino Casale, responsabile IPAS Terapie Molecolari e Immunologiche in Oncologia – AO dei Colli – Ospedale Monaldi