In ogni quartiere partenopeo, un tempo c’era un uomo di malavita che difendeva i diritti della gente al di fuori della legge e a cui tutti si rivolgevano per riparare i torti subiti, come descritto nella celebre commedia di Eduardo De Filippo Il sindaco del rione Sanità nel lontano 1960: il guappo.
Nello scorso secolo, questa figura è stata sostituita da quella del boss, la camorra ha messo radici nei quartieri della città e il codice d’onore di una volta, opinabile ma con valori forti (donne e bambini erano intoccabili), ha ceduto agli interessi economici su droga, prostituzione, tangenti, gioco d’azzardo e quant’altro alimenti l’industria della criminalità organizzata, suddivisa in Famiglie che controllano il territorio e che sono spesso in guerra fra loro, tra omicidi e vendette trasversali che ne falcidiano le componenti.
La camorra gestisce soldi, tanti. Secondo un recente studio di Eurispes produce un volume d’affari stimato in circa 33 miliardi di euro l’anno grazie a traffici di droga, imprese, appalti pubblici, estorsione, usura, traffico d’armi e prostituzione. Gli uomini sono impegnati nella violenza e le donne nella comunicazione, l’amministrazione e i collegamenti con la politica.
Le Famiglie fanno proselitismo fra i giovanissimi, affascinati dal facile guadagno e da modelli culturali indotti dai media, in primis Gomorra, che partendo da un’inchiesta giornalistica di Roberto Saviano sul clan dei casalesi è diventato un bestseller, poi un film, infine una serie TV per SKY giunta alla IV stagione (le riprese della V sono iniziate pochi giorni fa, con alcune scene girate al centro Direzionale di Napoli). I suoi protagonisti, Gennaro Savastano, Ciro Di Marzio, Salvatore Conte tra i tanti, entusiasmano i giovani dei Bassi napoletani grazie alla seduzione della violenza e al potere esercitato attraverso le stese su scooter di grossa cilindrata, gli smartphone ultimo modello, le armi, la droga, il sesso, i contanti.
In un contesto socioculturale degradato, nel quale il modello genitoriale è assente (quando non costituito da padri con precedenti penali e madri conniventi o succubi e permissive) e l’istruzione saltuaria, privati anche delle dinamiche di una sana competizione sportiva, gli adolescenti fanno gruppo fra loro radunandosi in baby gang per scontrarsi con gli oppositori e dimostrare ai capi dei rispettivi clan di essere pronti per essere arruolati. Il novero di risse, accoltellamenti e omicidi è incredibilmente alto e frequente. La mattanza può avvenire ovunque: nelle strade della movida, in discoteca, durante una rapina. Di solito il pretesto da cui scaturisce è sciocco: basta importunare la ragazza sbagliata, fare una battuta fuori luogo o lanciare uno sguardo di troppo. Spesso però a essere colpiti brutalmente sono purtroppo anche gli innocenti.
È da queste premesse che nasce il romanzo Il coraggio delle cicatrici. Poteva essere un lunedì come tanti, quel 18 dicembre 2017. Un giorno tranquillo, in cui l’aria delle feste natalizie inebriava i passanti. Luminarie, bancarelle, vetrine addobbate: come ogni anno, via Foria è uno scintillio di colori e luci che culmina alla centrale piazza Cavour, dopo l’incrocio con via Duomo, nel pieno centro storico di Napoli, crocevia di tre borghi, tre quartieri (Vergini, Miracoli e Sanità) che s’intrecciano in un patrimonio culturale suggestivo, ricco di palazzi storici, chiese e architetture.
Arturo ha 17 anni ed è un ragazzo tranquillo, studioso, di buona famiglia. I genitori sono separati, e lui abita in un bell’appartamento di via Foria con la sorella quindicenne Lara, il fratellino di 6 anni Fabrizio, e la mamma Maria Luisa, pedagogista e docente all’università Parthenope.
Quel 18 dicembre Arturo riceve una telefonata da Vittorio, suo padre, che gli chiede di andare a ritirare un’impegnativa per Fabrizio dalla pediatra, perché la mamma non è ancora rincasata. Il ragazzo obbedisce, ed esce senza giubbotto: il clima è mite e l’impegno di pochi minuti. All’altezza dell’ex Caserma Garibaldi, attuale sede dei Giudici di Pace del Tribunale di Napoli, Arturo viene fermato da quattro ragazzi che gli chiedono l’ora. Così estrae il cellulare e risponde che sono le 17:21. Uno del gruppetto gli fa una domanda stupida cercando di attaccar briga, ma lui risponde di non scocciarlo e cerca di andar via. Troppo tardi: dopo aver ricevuto un colpo alla nuca, Arturo è immobilizzato alle spalle da uno dei quattro, mentre gli altri tre si accaniscono con 14 coltellate al torace e al collo, vicino alla giugulare.
Sono da poco passate le 18 e Maria Luisa è rientrata. Preoccupata per il ritardo del figlio, prende il telefono per chiamarlo quando riceve una telefonata da un numero sconosciuto. La voce di un uomo le chiede di recarsi all’altezza della Caserma Garibaldi perché il figlio ha avuto un problema. Maria Luisa Si precipita giù con Lara, e si fa spazio fra la folla.
Arturo è sdraiato su una panchina, in una pozza di sangue, in fin di vita. Portato d’urgenza in ospedale, subirà diversi interventi, uscirà dal coma e si salverà.
In seguito si scoprirà che prima di lui la gang aveva tentato un agguato simile con Vito, un ragazzo più fortunato perché riuscirà a scappare.
In criminologia, gli offender di questi atti delittuosi sono classificati spree killers (omicidi per divertimento), e commettono i loro crimini in modo disorganizzato, senza premeditazione, agendo spesso in coppia o in gruppo, elemento che ne amplifica la ferocia, come nei Drughi raccontati da Kubrik in Arancia meccanica.
Grazie alla lucidità di Arturo nella ricostruzione dei fatti, e alla testimonianza di Vito, i quattro aggressori adolescenti (il più grande ha 16 anni, il più piccolo 14), tutti muniti di molletta (il coltello a serramanico che sempre più giovani maneggiano con destrezza e incoscienza) saranno identificati, arrestati e condannati a 9 anni e 3 mesi nei tre gradi di giudizio.
Il primo a essere fermato è Francesco, detto Kekko o’ Nano per la sua bassa statura, di soli 15 anni. È la mente, il regista; non accoltella Arturo, ma è lui ad avvicinarlo e a dirigere le operazioni.
Pur essendo piena di dolore e preoccupazioni per la salute del figlio, Maria Luisa decide di reagire: ai giornalisti che la contattano ogni giorno denuncia il contesto sociale che ha portato al ferimento del figlio, si concede alle telecamere delle emittenti e partecipa a diversi talk show (Carta Bianca, Piazzapulita, Non è l’arena) per rappresentare la gravità che pervade un territorio dove lo Stato ha fallito. Quello è un mondo che non le appartiene, se le capita di essere su un palco è per insegnare agli studenti, non per apparire in TV, ma in quel momento è necessario far passare un messaggio. L’esperienza nella trasmissione di Formigli è particolarmente intensa: il conduttore invia a Napoli Micaela Farrocco, collaboratrice già nota per aver prodotto con Michele Santoro il docufilm-inchiesta Robinù. La giornalista trascorre una settimana nei Quartieri, intervistando gli adolescenti che li abitano e Maria Luisa da casa sua. Chiede anche ad Anna, madre di o’ Nano, di andare a casa della donna per un confronto, ma lei rifiuta perché non si sente all’altezza. Ironia della sorte, Anna vive in un basso a circa 150 metri da casa di Arturo. Durante le riprese è però Maria Luisa a decidere di recarsi a conoscere Anna (se Maometto non va alla montagna…), e il risultato è un incontro che dà da pensare. Anna non è istruita, chiama Maria Luisa professoressa. Accanto a lei c’è una sua parente che tace ma rimarca le parole di Anna annuendo con una forte mimica facciale. La professoressa inizialmente parla in italiano forbito ma poi, nell’assicurarsi di essere ben compresa, cambia codice di comunicazione e le parla in napoletano. L’incontro fra la madre della vittima e quella del carnefice colpisce soprattutto per l’atteggiamento di Maria Luisa: in lei non c’è odio, bensì una richiesta di collaborazione per scoprire la verità e cercare di modificare l’atteggiamento omertoso e passivo di Anna. Quel che è certo è che è un dramma per entrambe: Arturo è ferito fisicamente e psicologicamente, Francesco è in prigione.
Le interviste a Maria Luisa continuano, tuttavia lei non si presenta mai come la vittima che cerca giustizia; denuncia invece il degrado culturale e la disfunzione del sistema familiare in molti quartieri della città.
Grazie alle sue competenze pedagogiche, la professoressa programma attività formative rivolte ai minori e alle loro madri per combattere l’emarginazione sociale che sfocia in affiliazione alla criminalità organizzata. In ambito accademico, istituisce prima un master e poi un corso di laurea specifici, per formare gli studenti a operare nel delicato campo della devianza minorile a seguito.

I contatti e la collaborazione con forze dell’ordine, medici, psicologi, giornalisti, magistratura, associazioni, mondo accademico, politica e stakeholder (chi nutre un interesse nel Sociale) la spinge a fondare ARTUR – Adulti Responsabili per un Territorio Unito contro il Rischio, che presenta nel 2019 durante un convegno a Villa Doria, creando anche un network con altre associazioni impegnate in ambiti affini e redigendo un manifesto di pedagogia civile fondato su quattro azioni strategiche: contrastare, curare, corresponsabilizzare, condividere.
Non da ultimo, affida la sua testimonianza a un libro, il coraggio delle cicatrici, scritto a quattro mani: Maria Luisa Iavarone descrive il lato emotivo che l’ha coinvolta come madre, arricchendo la storia con risvolti pedagogici sul degrado sociale delle famiglie degli aggressori; Nello Trocchia, giornalista investigativo, studia invece gli atti giudiziari, le intercettazioni ambientali e telefoniche, estrapolando una narrazione tecnica sui fatti e sullo scenario camorristico partenopeo. Maria Luisa è una donna che s’impegna, che lavora, che chiede a tutti di riflettere non solo su ciò che spesso accade ma anche, forse soprattutto, su quello che possiamo fare, insieme, per evitare che succeda di nuovo.

Carlo Negri, esperto di marketing farmaceutico e comunicazione in Sanità