Il diritto di essere IO.

A voi è mai capitato di abdicare al diritto di essere io? E se sì, vi ricordate quand’è successo?

Me lo sono chiesto in questi giorni, mentre mettevo a posto la libreria e mi è passato tra le mani il libro di Michela Marzano Il diritto di essere io. Ne cito testualmente un passo, utile al processo d’elaborazione del ricordo d’infanzia che vi racconterò:

Quando entriamo in relazione con gli altri, non ne usciamo mai indenni. La nostra affettività si scontra con la realtà del mondo. Con la materialità del nostro corpo. Con la resistenza che gli altri oppongono al nostro desiderio. E il mondo non esita ad addomesticare la vita obbligandoci, molto spesso, a reprimere i nostri sentimenti, a renderci conformi alle aspettative degli altri, a sottometterci al giudizio collettivo…”

Quand’ero alle elementari, la maestra ci diede da scrivere un compito per casa che aveva come titolo Cosa vuoi fare da grande?

Scrissi che da grande volevo fare l’agente segreto come James Bond. Guardavo tutti i suoi film, assieme ai mei genitori. Ricordo ancora l’entusiasmo con cui scrissi che volevo essere l’eroe che salva il mondo dai cattivi, che volevo volare in aereo, sfrecciare su auto in corsa e visitare luoghi affascinanti e sconosciuti. Per me quel tema era bellissimo!

Quando lo diedi alla maestra però, lei mi disse che avrei dovuto riscriverlo, perché alle donne non era permesso fare l’agente segreto.

In effetti, ripensandoci adesso, in quegli anni le donne non accedevano nemmeno alla carriera militare. Ma io ero una bambina, non conoscevo ancora i limiti delle leggi in vigore, la mia fantasia non sottostava a nessuna norma (e per fortuna, mi verrebbe da aggiungere). Mi sentii come nel cartone animato del piccolo drago Grisù, che per contraddizione voleva diventare un pompiere.

Ero sempre stata la prima della classe, e quell’imperfezione fu la mia prima défaillance. La ricordo come una vera e propria fatica, portare a termine quel componimento; non mi veniva in mente null’altro, non sapevo proprio che scrivere, ma in quell’istante arrivò mia mamma a portarmi la merenda e decisi di scrivere che da grande avrei fatto volentieri la mamma.

La mia mamma non viveva certo la vita avventurosa di James Bond, ma sapeva fare mille cose contemporaneamente, aveva sempre una risposta a tutto, sapeva cose che io non conoscevo, ed essendo sempre stata molto curiosa, rimanevo ogni volta affascinata. Mia mamma saziava la mia voglia di conoscenza da piccola esploratrice del mondo.

Anche stavolta però la maestra protestò, dicendomi che era troppo poco, che una bambina come me avrebbe potuto aspirare a molto di più.

Io mi sentivo sempre più triste, e per la prima volta un compito mi risultò difficile, come altri in futuro, seppur in ambiti diversi, ma io questo ancora non lo potevo sapere. Mentre guardavo il foglio con le lacrime agli occhi, ormai quasi sul punto di consegnare in bianco, pensai che forse dovevo chiedermi che cosa sarebbe piaciuto alla maestra, più che a me. E così feci: su quel foglio bagnato di lacrime scrissi che da grande mi sarebbe piaciuto fare la maestra.

Presi un voto alto, la maestra mi elogiò con la classe, e io tirai un sospiro di sollievo; ero ancora la sua preferita!

Episodi così non li dimentichi, restano nitidi anche se li accantoni per lunghi periodi.

Quel momento della mia infanzia ha segnato il punto d’inizio della mia rinuncia al diritto di essere appieno me stessa: sono entrata in contatto con gli altri e non ne sono uscita indenne. Quell’episodio mi ha trasformato così profondamente che per gran parte della mia vita, senza neanche accorgermene, ho continuato a cercare di essere come gli altri volevano che fossi, accantonando sentimenti e reali aspettative, e vivendo infelice e confusa per molto tempo.

Un bambino non ha filtri, e se la prima volta che esprime se stesso viene contrastato da una figura di riferimento, cardine nella sua crescita, assimilerà quell’interazione e il dolore che ne deriva.

Così passano vite intere, a cercare di essere perfetti e di non essere sbagliati per gli altri, sbagliati proprio come quel compito.

Partendo da questo racconto, vorrei stimolare una riflessione su quali modelli stiamo rimandando alle nuove generazioni e su cosa possiamo fare per migliorare il processo di sviluppo e accettazione di sé. È anche vero che l’immagine di sé, per fortuna, cambia nel tempo, a seconda del variare delle nostre figure di riferimento, e l’interazione con gli altri da nociva più risultare il più delle volte benefica. Ma in molte occasioni in cui ci troviamo a relazionarci con gli altri, un feedback sbagliato ci può facilmente far cadere nella trappola di essere tanti Io che vivono per compiacere gli altri e non se stessi. Bisognerebbe quindi comprendere che la scelta di essere se stessi, con pregi e difetti, eccellenze e deficit, è quella più appagante, anche se non è un percorso semplice. Non è così ovvio e scontato rendersi conto che le nostre relazioni migliorano quando siamo veri e autentici anziché fotocopie sbiadite di personaggi di un copione scritto per noi da qualcun altro.

Non dobbiamo smettere mai di chiederci perché ci costa tanta fatica non essere omologati, perché ci costa tanta fatica accettare le diversità e le imperfezioni che ci portiamo appresso, perché per compiacere gli altri abdichiamo così facilmente al diritto di essere Io.

Credo che per comprendere meglio il mondo che ci circonda sia bene non smettere d’interrogarsi, avere uno spiccato spirito critico ed essere curiosi, soprattutto oggi, che il sapere ci viene dato già digerito e preconfezionato.

Francesca Pappacena, Psicologa, attivista per i diritti civili, Referente Regionale Croce Rossa LGBT, discriminazioni e violenze. Scrive poesie, brevi racconti senza finale e si interroga su tutto

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