IL DONO DI DIONISO L’ACQUA È FATTA PER I BIRBANTI E IL DILUVIO LO PROVÒ

Il mito di Dioniso, figlio di Zeus, è molto complesso, ricco di elementi traci, greci, indiani: è la storia del lungo cammino di un essere mortale che deve peregrinare molto per diventare un Dio. In una delle sue solite scappatelle, Zeus ingravida Semele facendo infuriare la gelosissima Era, che vuole impedire la nascita del bambino. La dea sobilla le tre sorelle di Semele, anch’esse gelose della sorella, che con subdola cattiveria insinuano un dubbio in lei dicendole: Non conosci le fattezze del tuo amante… e se fosse un mostro? Devi chiedergli di farsi vedere. Semele si convince, e una notte chiede a Zeus di prometterle di soddisfare una sua richiesta. Zeus acconsente, e lei gli chiede di rivelarsi (simile al mito di Amore e Psiche). Pur sapendo cosa succederà a Semele, Zeus è tenuto a rispettare l’impegno, e fra tuoni e lampi appare in tutta la sua divina maestosità, ma uno dei fulmini colpisce Semele, che muore incenerita. Immediatamente Ermes apre il ventre della morta, prende il feto, apre la coscia di Zeus, ve lo inserisce e ricuce la ferita. Al nono mese, dalla coscia del padre nasce Dioniso, il nato due volte. Per salvarlo dalle ire della terribile Era, Zeus affida il figlio alle ninfe di Nisa, presso le quali sarà educato da Sileno, che poi farà parte del suo corteo. Diventato adulto, Dioniso scoprirà la vite e il suo uso, ma sarà perseguitato da Era fino a impazzire. Dopo aver viaggiato attraverso Egitto, Siria e le coste dell’Asia, arriverà in Frigia, dove la dea Cibele lo purificherà. Accompagnato da un esercito e aiutato da incantesimi, con un carro trionfale ornato da edera e pampini e seguito da Sileni e Baccanti, Dioniso conquistò l’India. Con lui si muovevano processioni fragorose, licenziose, orgiastiche, che daranno vita ai Misteri dionisiaci che certo non potevano essere apprezzati dagli dei. Dopo tante imprese, nel furore del sacrificio delle carni lui stesso viene sbranato dalle Baccanti (secondo altri è mangiato dai Titani).   

Una storia di tanti anni fa è il mito di Dioniso raccontato ai napoletani. Avendo scoperto come fare il vino, che portava gli uomini alla licenziosità e al divertimento sfrenato, Dioniso non era visto di buon occhio dagli Dei. Era un mortale flaccido, dalle forme equivoche, si circondava di viziosi ebbri e di donne folli, le sue feste erano divertimenti senza limiti, orge, danze coinvolgenti. Un giorno gli Dei arrivarono nel Golfo di Napoli e tutti insieme fecero una scampagnata sul Vesuvio. Appresa la notizia di quella presenza, i contadini offrirono loro formaggi, pastiera, olive e taralli sugna e pepe. Questi ultimi furono molto graditi dagli Dei, che ne presero in abbondanza, ma dopo un po’ la bocca cominciò a bruciare e loro chiesero da bere qualcosa che calmasse quel fuoco, ed ecco comparire Dioniso, che offre a tutti il piacevolissimo vino, grazie al quale è perdonato e gli è concesso di sedere con loro nell’Olimpo. Perciò si dice finire a tarallucci e vino

A me questa storiella piace assai! Immagino la faccia degli Dei mentre sorbiscono un Lacryma Christi o un Greco (la città di Torre prende il nome dai vitigni da cui era circondata) al posto di Nettare e Ambrosia che le colombe andavano a prendere nel Giardino delle Esperidi, al di là delle Colonne d’Ercole, e che sarà stato pure buono, ma con sempre lo stesso gusto. Dioniso avrà invece presentato di sicuro una carta dei vini fra cui scegliere.

Un’altra leggenda racconta che Lucifero, scacciato dal Paradiso, ne rubò un pezzo e lo portò sulla Terra: era il Golfo di Napoli. Un giorno Gesù salì sul Vesuvio, e ammirando la bellezza del Golfo si commosse, e da una sua lacrima nacque il vitigno Lacryma Christi.

Il vino è molto presente nelle opere di Omero: nell’Iliade viene dato in premio il vino di Lemno agli achei che hanno costruito un muro di difesa in pochissimo tempo; nella cerimonia principesca del funerale di Patroclo (col sacrificio di dodici giovani prigioniere troiane), celebrata da Achille in onore dell’amato, il Pelìde versa vino sulla terra invocandone lo spirito, e con il vino all’alba spegne il fuoco della pira; nell’Odissea Circe ubriaca Ulisse e i compagni con vino drogato, e Calipso vive su un’isola piena di grappoli d’uva (Ogigia); famosi sono gli episodi di Odisseo che ubriaca Polifemo, che del soave licor prese diletto, e la cena in cui l’astuto Ulisse fa strage di Proci.

Nelle Argonautiche Apollonio Rodio racconta che gli eroi alla ricerca del Vello d’oro trovarono fontane di vino nella reggia del padre di Medea e Circe.

Tanti poeti greci hanno cantato di Dioniso, ma il momento più significativo a lui legato è il Simposio, bevuta collettiva di carattere rituale nel corso della quale si declamavano versi e si discuteva di filosofia e poesia, fra musica e spettacolo. Alceo invita a dimenticare le preoccupazioni abbandonandosi al soave oblio del vino, senza attendere che arrivi la sera per iniziare il Simposio. Il vino veniva annacquato, come aveva insegnato Dioniso, perché solo gli Dei hanno la forza per reggere un vino puro senza ubriacarsi.

Lo sciita Cleomene lo bevve puro e impazzì, tant’è che quando si beveva forte si diceva bere alla scita.

Nelle sue Leggi Platone stabilì che i giovani potessero bere vino solo dopo i diciott’anni, mentre gli anziani sui quaranta e non annacquato, perché diveniva sollievo per la vecchiaia e rimuoveva la melanconia dell’illusione di tornare giovani. 

Dopo il Simposio si poteva praticare il Kottabos, gioco che consisteva nel colpire un’asticella in equilibrio, un piatto o un vaso, con le ultime gocce di vino rimaste nella tazza. Ho visto la raffigurazione di questo gioco su una lastra tombale nel Museo di Paestum, sulla quale è dipinto un personaggio disteso sul lettino che fa il movimento del lancio.

Nelle Sacre Scritture è scritto che Noè scopre la vite da cui nasce la bontà del vino fino a ubriacarsi, e ne parlano anche Ezechiele, Isaia e i Salmi. è con i Vangeliche la vite assume un significato mistico. Nel corso della sua missione terrena, Gesù stesso fa riferimento al vino: quando racconta la parabola degli operai della vigna, quando fa il primo miracolo alle nozze di Cana, quando alza il calice nell’Ultima Cena. Vino come sangue sacrificale. Io sono la vite dice, e gli Apostoli devono attaccarsi a Lui come grappoli al tralcio. Nel Vangelo di Matteo (9) si racconta: Or una donna, che da dodici anni soffriva di perdite di sangue, si avvicinò e da dietro gli toccò il lembo del mantello. Gesù la guarì. È molto singolare anche quanto si legge nel Vangelo di Luca (7-31): È venuto il Giovanni Battista, che non mangia pane e non beve vino, e voi dite: «Ha un demonio. È venuto il figlio dell’uomo, che mangia e beve. Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e delle peccatrici». Poiché Cristo ha anche natura umana, perché questo passo non viene letto durante la messa? L’Assemblea apprezzerebbe ancor di più Gesù come Dio incarnatosi Uomo. Basterebbe leggere quante volte, nel Vangelo, lo si vede sedersi a tavola con persone che lo ospitano!

Sergio Giaquinto, Giurista, già Dirigente Amministrativo dell’A.O. dei Colli, cultore di Storia e Archeologia

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