Il malato cronico e il vissuto di malattia: alleanza tra operatori sanitari e pazienti

Alleanza tra operatori sanitari e pazienti.

Il senso di instabilità, paura, smarrimento che ha pervaso il periodo dell’emergenza legata al covid 19, è stato provatoin maniera più evidente dai pazienti con patologie croniche: in essi i sentimenti di precarietà e di incertezza che già solitamentene caratterizzano il vissuto, sono stati percepiti in maniera ancora più intensa ed aggressiva.

Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie  SoldatiGiuseppe Ungaretti

Nei giorni della fase 1, quella iniziale e più grave che ha contraddistinto l’emergenza Covid-19, si è reso indispensabile rendere fruibile l’accesso in ospedale solo ai pazienti che avevano necessità di  prestazioni con carattere di urgenza e/o di improrogabilità.

Milioni di pazienti sparsi in tutta Italia, per due mesi circa, non hanno potuto sottoporsi ai controlli di routine, interrompendo e rompendo quel particolare equilibrio, anche emotivo, che lega il malato cronico alla sua patologia e alla equipe curante.

Di contro, ci sono stati altri numerosi casi di pazienti che, pur avendo la possibilità di recarsi in ospedale per continuità terapeutica, presi dalla paura di recarsi in luoghi potenzialmente infettivi, hanno preferito interrompere le cure piuttosto che vincere i propri timori, comprensibili certo, ma anche ingiustificati.

Le maggiori preoccupazioni dei pazienti cronici, nel particolare frangente del lockdown, sono state certamente legate alla gestione della patologia da un punto di vista clinico, ma anche, e per alcuni soprattutto, dal punto di vista emotivo: le mie giornate, come quelle di tanti colleghi, sono state riempite da numerose telefonate e messaggi di pazienti che avevano il bisogno di essere tranquillizzati, di sentirsi dire che davvero tutto sarebbe andato bene, di sapere che, anche se da lontano, noi operatori eravamo con loro e per loro e che, finita l’emergenza, si sarebbe ricominciato da dove si era lasciato…

Alcuni, avevano bisogno di raccontare liberamente le proprie paure senza che l’ascoltatore vi sovrapponesse le sue, rischiando, così, di amplificare quelle di entrambi.

Altri, cercavano, attraverso la telefonata, di sentire in qualche modo presente e vicino un operatore del reparto di riferimento, desideravano rassicurazione che quell’abbraccio virtuale di cui tanto si parlava, esistesse davvero anche per loro: per un paziente cronico, l’ ospedale in cui si è seguiti diventa una sorta di rifugio dalle intemperie della malattia: è sicurezza, accoglienza, protezione. E’ speranza, se non di guarigione, almeno di una quanto più agevole possibile convivenza con la patologia.

Sono tornata in ospedale per fare la terapia dopo settimane che non venivo per paura del coronavirus – dice I., colite ulcerosa in fase attiva – ho iniziato a stare male e sono dovuta venire. Che brutto trovare il MIO reparto vuoto, non sembrava quello di prima. L’ho trovato troppo triste e silenzioso.

L’arcobaleno che ha fatto da sfondo ai giorni difficili dell’emergenza e che ai pazienti cronici, più che agli altri, rischiava di apparire grigio e scialbo, necessariamente doveva, alla loro vista, recuperare colori e vivacità; doveva, in qualche modo, rappresentare non quello che era, ma quello che sarebbe stato: solo così la malattia, la malattia cronica, avrebbe fatto meno paura e l’equilibrio emotivo avrebbe patito di meno la precarietà della situazione.

Io lo so che devo pensare a curarmi– mi racconta una mattina di marzo, a telefono, T. paziente oncologica che deve sottoporsi a polipectomia del colon – devo stare bene per quando l’emergenza sarà finita e so anche che non devo aver paura di venire in ospedale, però avevo bisogno di sentirmelo dire.

Il 4 maggio, tra timori, preoccupazioni, domande è iniziata la fase 2, quella che piano piano ci traghetterà verso una situazione quanto più vicina a quella normalità che, bruscamente, abbiamo interrotto ad inizio marzo.

Per tanti, che ci sembreranno troppi, mesi, i corridoi e le sale d’attesa di ospedali, cliniche, ambulatori non saranno affollati come prima, occorrerà tenere ancora alta l’attenzione: piano piano ci si abituerà alla nuova normalità diversa dalla precedente, ma non per questo peggiore a prescindere.

I pazienti cronici dovranno riassestare il loro equilibrio, dovranno riconquistare il controllo sulla malattia, dovranno riallacciare i rapporti interrotti con gli ospedali e con i Centri di cura. Dovranno, in molti casi, recuperare o anche potenziare quelle strategie, dette di coping, che sono indispensabili per gestire nel miglior modo possibile la malattia e la convivenza con essa.

I pazienti, e noi operatori con loro, hanno affrontato una prova importante che lascerà, indelebile, la sua impronta nelle loro e nelle nostre vite.

Nulla del passato deve andare perso, anzi dovrà essere motivo di forza e vigore per i giorni in cui, la malattia, farà più paura.

Nessuno dei messaggi ricevuti nei mesi bui dell’emergenza mi ha lasciato indifferente, nessuno è stato banale; ognuno di essi, al contrario, ha reso più evidente l’importanza che riveste per il paziente il poter esprimere le proprie angosce, risorse, ansie, conquiste.

Nessuna delle telefonate alle quali ho risposto andrà persa: in ognuna di esse, trapelava il bisogno, per il paziente, di avere qualcuno accanto pronto ad incoraggiarlo e a convincerlo, fortemente, perché era indispensabile, che il tempo, il suo tempo, il mio tempo, da domani sarebbe stato migliore, anche quando, in alcuni giorni, stentavo a crederci anche io.

La fase più grave dell’emergenza è passata; la malattia cronica no, è compagna di vita.

Adesso, però, bisogna ripartire, è ora che l’arcobaleno riprenda finalmente colore.

Rosa Maria Bevilacqua, Sociologa, Delegata Regionale Sanità A.S.I. (Associazione Sociologi Italiani)

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