Il mondo della cannabis terapeutica

Il professor Giuseppe Cannazza, ordinario di chimica farmaceutica dell’Università di Modena e Reggio Emilia, primo studioso che si è dedicato interamente allo studio della cannabis terapeutica, ha aperto con una interessante relazione la giornata formativa dedicata al pianeta dei cannabinoidi. Abbiamo esplorato insieme lo scenario attuale in Italia, dalla conoscenza della pianta alla sua applicazione in terapia del dolore.

Professore, l’aula stamattina era composta prevalentemente da medici, farmacisti, sanitari. Lei ha cominciato la relazione spiegando in modo molto semplice cos’è la cannabis e a cosa serve, partendo dalla differenza fra fitocannabinoidi, endocannabinoidi e cannabinoidi sintetici, come se si rivolgesse a un adolescente, e i discenti erano particolarmente assorti nell’apprendere la sua lezione. Le è sembrato ci fosse molta ignoranza in materia fra i sanitari? È così?

Assolutamente sì. Parlare di cannabis significa non parlare di niente, perché cannabis è tutto, in quanto ci sono varietà con altissimo contenuto di tetraidrocannabinolo, anche detto THC, che è il principio attivo psicotropo, e altre, la canapa industriale, in cui la percentuale di tetraidrocannabinolo è molto bassa ma c’è molto cannabidiolo o CBD; quindi nel trattare la cannabis bisogna specificare di cosa si sta parlando. Purtroppo noto che manca questa cultura di base, terminologica, che sembra un po’ parlare senza conoscere il vocabolario, le parole. Io insegno all’università, per cui per me è importante partire sempre dalle fondamenta.

All’università i corsisti sono discenti che partono dalla base per imparare. Nella giornata formativa di oggi, i discenti erano anestesisti, algologi, farmacisti, con una preparazione di base già consistente. C’è ancora un gap culturale sulla cannabis?

Il problema è che parliamo di un argomento particolare, che è la cannabis. Se parlassimo di altri principi attivi, come il paracetamolo ad esempio, i medici non avrebbero alcuna difficoltà. La cannabis è spiazzante, perché non è una scatoletta che arriva al medico, che sa come dosarla, per quale patologia e così via, nella cannabis tutto è molto oscuro, nebuloso, per cui è importante partire proprio dalla formazione di base a livello sanitario.

Lei ci parlava dei due principi attivi, il THC e il CBD, ma stamattina ha parlato di moltissimi altri principi attivi presenti nella pianta, nel suo complesso. Cosa intende?

Io parlo dei principi attivi, cioè di composti chimici che svolgono un’azione farmacologica: immagini che degli oltre 150 fitocannabinoidi, ovvero di una classe di composti presenti nella cannabis, noi ne conosciamo circa una decina, e nemmeno a fondo come attività farmacologica, di tutto il resto non ne sappiamo niente. La cannabis è un po’ strana, in quanto prima si vedono gli effetti e poi si torna indietro per capire cosa c’è dentro; è come se do a un paziente qualcosa e poi cerco di capire cosa ha procurato l’effetto.

Può dipendere dal fatto che è un composto in ambito non medico noto da millenni, per cui a livello fenomenologico gli effetti sono conosciuti, mentre col nostro metodo scientifico, a volte riduttivista, forse rischiamo di perdere qualcosa di importante?

Su questo io mi scontro. Sono aperto a tutto, però sono il classico chimico farmaceutico. Studio il principio attivo e l’effetto farmacologico che poi passa al chimico per essere utilizzato in terapia. Quando si parla di un principio attivo utilizzato da millenni, non dimentichiamo che a fine ‘800 a livello europeo la cannabis era presente nella farmacopea, che la conosceva sotto forma di soluzione alcolica ed era regolarmente utilizzata. Poi c’è stato un buco, un vuoto per diversi decenni e solo recentemente abbiamo ripreso a studiarla. A quei tempi, c’era un approccio diverso da quello moderno: la farmacopea diceva di somministrarla nel cane e vedere come deambulava; visto che la cannabis ha concentrazione di principi attivi diversi, oggi abbiamo invece studi clinici, metodi analitici che permettono di avere una composizione qualitativa e quantitativa dell’estratto di cannabis comprensiva, per cui se la correlo all’attività farmacologica osservata, in teoria si riuscirebbe a produrre degli estratti di varietà di cannabis specifici per patologia. Ad esempio, se ho bisogno del cannabidiolo userò quella varietà al CBD e viceversa, se ho bisogno di THC selezionerò l’altra specifica, conservando però tutta l’impronta molecolare degli altri composti.

Quindi l’utilizzo delle scienze omiche potrebbe essere valido per affrontare la complessità della cannabis?

Assolutamente. La metabonomica è la scienza che deve essere applicata al mondo della cannabis. Il problema adesso è unire le tessere del mosaico. Dal 2013 si è fatto tanto, ma anche come metodi di estrazione, bisogna approntarne di nuovi.

Prof. Giuseppe Cannazza

C’è un metodo molto noto che porta il suo nome, il metodo Cannazza…

In realtà non è un metodo, è una pubblicazione scientifica fatta per lo sviluppo di un metodo analitico per la determinazione dei cannabinoidi all’interno dei preparati galenici; negli articoli scientifici bisogna descrivere la parte sperimentale, come trattare i preparati, ed è del 2015, anno in cui si sapeva ancora poco. Negli ultimi anni ci sono stati molti sviluppi, anche sui metodi di estrazione, per cui occorre resettare i primi.

È importante secondo lei uniformarli, per avere uno standard qualitativo omogeneo?

Assolutamente sì. Altrimenti ci troveremmo con prodotti in parte diversi a seconda del metodo estrattivo usato da questa o quella farmacia.

E la possibilità futura di produrla in modo sintetico supererebbe questi ostacoli?

No, il principio attivo puro potrebbe essere valido, però perché produrlo per sintesi quando si può estrarre direttamente dalla pianta?

Parlando con dei farmacisti, c’è anche un problema legato alla stabilità del prodotto che, in base alla metodologia estrattiva varia dai 30 ai 45 giorni. Si può lavorare anche su questo per avere uno standard?

Sì. Se estraggo in olio, otterrò solo i principi attivi che vanno nell’olio, che solubilizzano in olio; quella che attualmente è più in voga è l’estrazione con etanolo, che poi viene evaporato e ripreso con olio secco, per cui l’olio non viene scaldato e non si ossida, per cui si potrebbe avere maggiore stabilità del THC e del CBD.

Un altro problema legato all’estrazione in olio è che se non si decarbossida la cannabis apriori, si estraggono anche gli acidi di THC e CBD, che non sono stabili, e hanno il problema di decarbossidare e formare THC, il che implica che la concentrazione varia durante la conservazione. Se il prodotto è conservato a temperatura ambiente aumenta, mentre a temperatura refrigerata è molto più lenta, e quindi il titolo diminuisce. Fare quindi degli studi sulla stabilità in base a metodi di estrazione diversi è sicuramente interessante per comprendere meglio come operare correttamente.

Attualmente cosa sta studiando col collega farmacologo professor Luongo? Stamattina mi sembra si accennasse al THC puro e al THCP, che è una scoperta molto importante, in quanto pare sia 4 volte più potente del puro?

Applicando l’approccio metabonomico si riescono a scoprire dei composti che prima erano ignoti. Per la cannabis, abbiamo scoperto nel 2020 questa nuova molecola, il THCP che ha avuto una risonanza mondiale, siamo stati intervistati anche dalla CNN mentre per noi era uno studio come un altro. L’aver scoperto che questo fitocannabinoide è più attivo per il recettore 33 volte e 4 volte più potente del THC è stato importante: ora è uno standard, e ci aiuta sapere quanto THCP c’è nella cannabis, in quanto potrebbe spiegare il perché alcuni estratti di cannabis con basso contenuto di THC danno un effetto psicotropo elevato, quindi dovuto ad altre sostanze. Ora sto lavorando sulla tiralità dei cannabinoidi, che è una cosa interessante. In parole semplici, è come l’elica di una barca: il THC, chimicamente, in teoria dovrebbe esistere in forma destrorsa o sinistrorsa, anche se in realtà sarebbero quattro. La natura generalmente produce solo uno di questi, ma si cominciano a vedere anche piccole quantità dell’altro enantiomero, che non si sa bene cosa faccia; inoltre hanno effetti diversi, a volte anche antagonisti: si è visto che il +CBD potrebbe essere psicotropo rispetto all’enantiomero -CBD, che non lo è.

La talidomide, ad esempio, ha incontrato il problema della tiralità. Ora l’EMA e l’FDA considerano queste due forme come due composti diversi, per cui l’industria farmaceutica attualmente deve fare le prove tossicologiche su entrambe le forme.

Cosa prevede nel prossimo futuro?

Prevedo che saranno presenti in commercio degli estratti, secondo me titolati, almeno di THC e CBD, che avranno anche questi un’attività farmacologica diversa, per la presenza o meno del fitocomplesso, per cui torneremo al punto di partenza, magari eliminando la variabile della preparazione galenica.

La titolazione renderebbe la vita più semplice per i medici, però un prodotto molto standardizzato potrebbe farci perdere di vista i prodotti complessi…

Se ne avessimo tanti di standardizzati, però, potrebbe essere un vantaggio per il medico. In Germania ci sono 72 estratti diversi di cannabis. Se standardizzati, almeno di THC e CBD, possono aiutare il clinico nell’impostare una terapia.

Credo quindi sia fondamentale la titolazione, che ci consentirebbe di ragionare solo su una variabile, la risposta del paziente, in quanto la standardizzazione aiuta a eliminare una seconda variabile, che renderebbe più complicata l’individuazione di criticità

Beniamino Casale, responsabile IPAS Terapie Molecolari e Immunologiche in Oncologia – AO dei Colli – Ospedale Monaldi.

Carlo Negri, esperto di marketing farmaceutico e comunicazione in Sanità.

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