IL SUICIDIO: UNA SCONFITTA SOCIALE

Il suicidio è uno degli atti più individuali e, al contempo, sociali che esistano: sebbene compiuto dall’individuo, è una sconfitta della società.

Emile Durkheim

Nel 1897, nel saggio Il suicidio. Studio di sociologia, il sociologo francese Émile Durkheim argomentava che i suicidi sono fatti sociali, dunque da tali vanno trattati: anche le scelte più intime dell’individuo, come quelle che riguardano la vita e la morte, sebbene sembrino essere frutto di autodeterminazione sono in realtà riconducibili a scelte sociali dalle quali l’uomo è sempre condizionato.

Durkheim approfondiva la sua analisi individuando tre particolari tipologie di suicidio: egoistico, anomico, altruistico.

Il suicidio egoistico è attuato da colui che si toglie la vita sapendo (o credendo) di dover comunque morire: la storia ci riporta al filosofo Seneca, che accusato da Nerone di aver partecipato a una rivolta contro di lui e temendone l’ira, preferì uccidersi anziché difendersi. Era il 65 d.C.

Il suicidio anomico, dove l’alfa privativa anteposta a nomos – norme identifica la confusione e il disordine interiore, è tipico di chi, piuttosto che perdersi in una vita senza norme né regole, decide di morire.

E poi c’è la forma più nobile, quello altruistico: ne sono esempio il giovane napoletano Salvo D’Acquisto, che durante la Resistenza sacrificò la propria vita per salvarne altre. Ancora, Massimiliano Kolbe, il frate francescano che in un campo nazista scambiò la sua vita in cambio di quella di alcuni prigionieri. Altruistico è anche il suicidio della mamma che, pur di riabbracciare un figlio che non c’è più, nel suo infinito amore decide di raggiungerlo. Paradossale, discutibile, pieno di contraddizioni, condannabile ma ugualmente ascrivibile agli altruistici è il suicidio del kamikaze: un uomo che sacrifica la propria vita (e purtroppo non solo la sua) pur di rispettare e venerare un dio, un ideale, un’illusione.

Nella società contemporanea parlare di suicidio è ancora un tabù, tanto che l’Organizzazione Mondiale della Sanità riconduce la scarsa disponibilità di dati sul fenomeno proprio alla difficoltà di raccogliere testimonianze in merito. È pur vero che parlarne in maniera incontrollata, superficiale o inappropriata potrebbe scatenare quel fenomeno che il sociologo David Phillips ha definito effetto Werther, per cui la notizia di un suicidio pubblicata sui mezzi di comunicazione di massa potrebbe scatenare nella società una catena di altri suicidi (il protagonista del libro di Johann Wolfgang von Goethe I dolori del giovane Werther, intrappolato in una storia d’amore infelice, si uccide. Difatti, dopo la pubblicazione del libro, si registrò un incremento di suicidi tra i giovani).

I numeri sono impressionanti: nel mondo, tra il 1 gennaio e il 1 maggio del 2020, sono morte per suicidio 357.785 persone.

È stato calcolato che in Italia 10 persone al giorno si tolgono la vita, ma nelle settimane dell’emergenza COVID-19 c’è stato un preoccupante aumento dei casi.

Gli uomini si suicidano più delle donne (il rapporto è di circa 4 a 1), sebbene queste ultime sviluppino più facilmente pensieri suicidi.

L’età media è salita negli anni.

Si ritiene che il più delle volte il fattore scatenante sia la depressione, ma un recente studio pubblicato su Psychological Bulletin ha mostrato che esistono almeno 50 fattori di rischio predisponenti, tra cui: isolamento sociale, difficoltà di comunicazione, abusi subiti in età infantile, detenzione, perdita del lavoro, malattie gravi, eventi stressanti.

Lo psicoanalista contemporaneo Massimo Recalcati afferma che coloro che decidono per il suicidio sono uomini che hanno perduto la loro immagine, che hanno incontrato uno specchio in frantumi, che non possono riconoscersi più in nulla. Sono stati spogliati della loro stessa immagine. In questa dichiarazione è possibile riconoscere quel che nell’attuale società potrebbe essere la forma più diffusa di suicidio, definito da bilancio: l’uomo moderno, facendo un rendiconto di come sia stata la sua vita fino a un certo punto, potrebbe ritenersi fallito, senza prospettive per il futuro e senza certezze per il presente, e sentirsi incapace di ricostruire lo specchio in frantumi, arrendendosi così all’idea di porre fine alla propria esistenza.

Le dinamiche legate al suicidio sono numerose, profonde, per molti versi inconcepibili, quasi sempre inspiegabili, soprattutto se confrontate con il vissuto di quanti tenacemente cercano di difendere la vita e di riappropriarsene quando rischiano di perderla.

Allo stesso tempo però, chi decide di uccidersi merita rispetto, delicatezza, sensibilità. E le scuse di chi, quando occorreva, non ha saputo tendergli la mano. Anche la persona più fragile spesso può desistere: a volte basta un saluto inaspettato a distrarla e a distoglierla dal suo insano intento. Quasi sempre la linea di confine tra voler mettere fine alla propria esistenza e l’istinto di sopravvivenza è talmente sfumata che basta una parola sussurrata perché si scelga di provarci ancora anziché saltare giù dal ponte. Chi ha deciso di togliersi la vita merita una seconda opportunità di valutazione, anche se poi non potrà goderne. Merita che qualcuno dopo di lui, invece che giudicare, cerchi di riscostruire lo specchio frantumato e di dare risposta al perché oggi, con noi e tra noi, c’è chi trovi in un effimero e illusorio atto di coraggio che scivola nella resa e nella più totale indifferenza, l’ardire di morire piuttosto che di vivere.

Rosa Maria Bevilacqua, Sociologa, Delegata Regionale Sanità A.S.I. (Associazione Sociologi Italiani)

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