In occasione della giornata conclusiva della Pain week a Vietri sul Mare, dedicata ai cannabinoidi, abbiamo chiesto al dottor Brunello Florio, titolare della omonima farmacia sita a Napoli e docente all’Università Federico II, un’analisi sulla preparazione della cannabis terapeutica.
Dottore, lei si occupa di galenico da molti anni. Quali sono le maggiori difficoltà per la preparazione della cannabis?
Principalmente sono tre. La prima riguarda l’estrazione di cannabis, che è particolarmente complessa e necessita di investimenti; questo spiega il piccolo numero di colleghi che si dedica a questa attività; bisogna avere un laboratorio, dei termostati e altre strumentazioni molto costose.

La seconda riguarda l’approvvigionamento, che lascia a desiderare, in quanto il fabbisogno nazionale di cannabis è ben superiore a quella disponibile, alla possibilità di averla. Attualmente ne importiamo molta dall’Olanda, probabilmente in futuro anche dalla Danimarca. È poca, e spesso si arriva a ciò che medici e farmacisti non vorrebbero mai capitasse: l’interruzione della terapia: i pazienti molto spesso si trovano bene, hanno un sollievo dall’uso della cannabis terapeutica ma purtroppo noi siamo costretti a interrompere la terapia.
Per ultimo, c’è un po’ di resistenza da parte di alcuni medici e personaggi della filiera dovuta a delle remore per l’uso della cannabis, di superstizione, non tanto razionali, che fortunatamente stanno passando e oggi come oggi la terapia si sta affermando sempre più; non è la panacea di tutti mali, assolutamente, ma in specifiche applicazioni si dimostra molto soddisfacente.
Durante i lavori, il dottor Carlo Grizzetti, palliativista della Lombardia, nella sua relazione ha dichiarato che del numero di farmacie private in Italia, circa 19 mila, sono solo 500 quelle impegnate nella produzione di cannabis terapeutica, per una popolazione di 65 milioni di abitanti.È quindi un problema nazionale?
La prima causa, come dicevo, è l’investimento iniziale. Bisogna avere un laboratorio attrezzato, e non tutti lo hanno. Inoltre, non è un’attività particolarmente remunerativa: la produzione impiega molto tempo, è complicata, c’è molta burocrazia collegata, nel nostro laboratorio abbiamo due professionisti che si occupano solo di questo; per i sanitari non è un problema di costi, in quanto dobbiamo garantire le prestazioni a tutti, ma certo incide. La legislazione purtroppo vieta la spedizione della cannabis da parte delle farmacie, è stata espressamente vietata dal Ministero con un richiamo in una nota, per cui alcune regioni d’Italia sono scoperte.
E quindi il paziente deve spostarsi da una regione a un’altra?
Il paziente deve spostarsi o mandare un suo corriere, perché è la farmacia che per legge non può spedire lo stupefacente, o può mandare un emissario, un familiare, se è allettato o indisponibile. Quello che la legge non vuole è la creazione di reti distributive. Le grandi città sono attrezzate con laboratori che estraggono, ma la provincia no. Auspichiamo un adeguamento da parte del Ministero; ma al momento la nota ministeriale è molto chiara e non lo permette.
Nell’ultimo paio d’anni, quanta cannabis ha erogato ai pazienti?
A Napoli siamo il laboratorio che lavora di più in quanto abbiamo cominciato per primi, nel 2013. Nell’ultimo paio d’anni direi più di 2 mila.
I pazienti vengono anche da fuori città?
Sì. Ho anche pazienti che vengono dalla Calabria, che è una regione scoperta, e arrivano in auto in farmacia. Mi auguro che almeno per la cannabis, che è uno stupefacente minore, non si tratta di morfina o di altro, per cui auspicherei un po’ più di elasticità.
Pare che ci sia anche un gap culturale sull’uso della cannabis, fra voluttuario e terapeutico. È così?
Purtroppo sì. Quando capita alla popolazione è accettabile, se invece i dubbi e le critiche sono mosse da medici e sanitari, decisamente meno.
È possibile profilare la tipologia di pazienti che ne fanno utilizzo? Per la sua esperienza, parlando con loro?
Certo, parlano con me anche perché per il ritiro c’è una prassi burocratica che richiede sei o sette minuti, per cui è nostra abitudine chiedere come sta andando, se ci sono problemi, effetti collaterali e così via. Certo non abbiamo le informazioni dei medici in materia.
Quali sono le patologie che la richiedono maggiormente?
Il dolore in generale, nelle malattie autoimmuni, nel Chron, nella spasticità da sclerosi multipla, nell’epilessia, anche di natura animale; nel paziente oncologico, in particolare per il cancro del pancreas, e la fibromialgia, che tratto molto spesso con cannabis.
Con effetti positivi per la fibromialgia?
Mediamente sì, con una buona percentuale di risultati positivi. La cannabis può essere considerata di prima scelta, anche perché è atossica.
Lei pensa che possa valere la pena avere un farmaco che abbia solo un tipo di composto presente nella cannabis, o è più per una visione olistica?
La visione olistica è importantissima. Tutta la vita si è evoluta nel pianeta si è evoluta in questa materia. I composti, nei vegetali, non sono presenti in maniera casuale, ma hanno un proprio equilibrio, uno scopo. Sotto il punto di vista tecnico i problemi sono tanti, e siamo solo all’inizio. Da quando ho cominciato nel 2013 ad oggi abbiamo fatto tanti progressi e scoperte, molta conoscenza, ma la strada è ancora lunga. Sono per la visione olistica, ma dobbiamo anche tener presente le oltre 500 molecole contenute nella cannabis; dobbiamo sviluppare dei metodi estrattivi nuovi, che siano veramente efficaci per ottenere questo risultato, altrimenti è solo un’illusione. Però è un momento anche entusiasmante: come dicevo durante la relazione, la paragono alla scoperta dell’azione terapeutica dell’oppio, che era un estratto vegetale come la cannabis e si vide che era molto efficace per tante malattie diverse. Credo che adesso siamo a quel livello, ci vorranno ancora un paio di anni.

In oncologia la cannabis viene prescritta per il dolore associato ai tumori, alle metastasi. È anche un riferimento per l’effetto immunomodulante che possiede, a differenza degli oppiacei, che hanno invece un effetto immunosoppressore. Ci si sta spingendo molto sull’immunoterapia. Secondo lei la cannabis può avere un ruolo fondamentale?
Sì, siamo i pionieri e ci si aspetta molto in diversi ambiti nel prossimo futuro.
I vari metodi estrattivi disponibili per i farmacisti comportano un problema di standardizzazione del prodotto?
Credo che l’approccio olistico sia importante, ma penso che avremo un numero di molecole a titolo noto; spero presto, ma dipende anche dagli investimenti disponibili. Quando qualche multinazionale sarà veramente interessata a investire, arriveremo a un prodotto standardizzato in commercio.
Abbiamo parlato di titolazione. La cannabis è un composto complesso, e pare non sia semplificabile il più possibile perché alcuni studiosi sostengono che se dividiamo i composti l’uno dall’altro perderemmo di vista una globalità che ha un senso completo. Cosa ne pensa?
La sfida è proprio questa. Una via di mezzo, fra la visione olistica e la riproducibilità richiesta in farmaceutica. Penso sia questa la strada giusta.

Beniamino Casale, responsabile IPAS Terapie Molecolari e Immunologiche in Oncologia – AO dei Colli – Ospedale Monaldi.

Carlo Negri, esperto di marketing farmaceutico e comunicazione in Sanità.