Nella fase 1 del lockdown, chiusi nelle nostre case, siamo stati travolti dal bollettino di guerra dei media: ogni canale TV trasmetteva in tutti i momenti reportage con il numero di contagi, dei pazienti in terapia intensiva al collasso, intervistava i sanitari stremati, gli epidemiologi, virologi e infettivologi sconosciuti ai più e diventati poi, sul piccolo schermo, volti noti, fenomeni mediatici, che in modo spesso contraddittorio comunicavano ipotesi, speranze, ma poche o nessuna certezza.
Abbiamo imparato il tasso di letalità, ovvero il numero di decessi rispetto a quello dei pazienti Covid positivi, diverso dal tasso di mortalità, che invece esprime il totale dei decessi in rapporto alla popolazione.
Molte volte abbiamo dubitato dei numeri del bollettino delle 18 in diretta dalla Protezione Civile, che non specificava quanti pazienti sono scomparsi contraendo il solo Coronavirus rispetto a quelli deceduti già affetti da altre patologie croniche, se non in termini di vaghe percentuali e di fascia d’età avanzata.
Forse non ci dicono la verità per non terrorizzarci di più, sostenevano alcuni
Sì, ma questi sono i numeri dei soli pazienti ospedalizzati, non di quelli deceduti a casa, ribattevano altri.
E’ stato ignorato, non analizzato, un altro fenomeno collegato alla pandemia: il numero di decessi dovuti alla paura di persone in situazioni di emergenza-urgenza di recarsi al Pronto Soccorso per le cure, preferendo restare a casa per evitare il possibile contagio,
Dario Buccheri, cardiologo emodinamista siciliano dell’ospedale Sant’Antonio Abate di Trapani, coautore del libro Emozioni Virali – le voci dei medici dalla pandemia, di cui abbiamo più volte parlato, nel suo racconto La parte sommersa dell’iceberg li descrive, in relazione agli infarti, come morti da covid-fobia, persone con dolore toracico persistente da più giorni arrivati in ospedale quando il danno era ormai irreparabile.
Riportiamo uno stralcio del suo racconto, intitolato Il pescatore, rimandando alla lettura del libro e ringraziandolo per le emozioni trasmesse.

Il pescatore.
Vengo svegliato dalla chiamata del centralino dell’ospedale nel cuore della notte, una notte mite di fine aprile. In arrivo dal pronto soccorso un paziente con un brutto quadro di infarto miocardico acuto. Salto dal letto e scappo via. Preparo la sala operatoria e arriva il paziente: un pescatore. Ha il volto scolpito dal sole e dal sale della nostra terra, i capelli neri, la voce roca, una caratteristica dei nostri pescatori, spesso grandi
fumatori. Lui dichiara subito di fumare 40-50 sigarette al giorno, “… u sapi duttù? U mari, i pinsera…” (Lo sa, dot- tore? Il mare, i pensieri…). È visibilmente sudato, pallido, freddo, non molto presente… Ha una pressione sanguigna di 60 mmHg. Vomita un paio di volte. Quadro clinico molto compromesso. Teneva il dolore al petto nascosto anche a se stesso. Da oltre due mesi era così. Fino alla notte in cui non ha potuto fare a meno di an- dare al pronto soccorso. Va in arresto cardiocircolatorio e riusciamo a riprenderlo con le unghie e con i denti. Ci dà assistenza anche un collega rianimatore. In pochi secondi eseguiamo la coronarografia che ci mette di fronte a un quadro devastante: due coronarie su tre sono chiuse da tempo mentre l’unica rimasta è ristretta al 99%, distrutta come una vecchia trazzèra di campagna. Il fumo e il colesterolo avevano letteralmente divorato le coronarie del nostro paziente. In un lampo ci prepariamo a eseguire l’angioplastica per provare a riaprire il vaso. Altro arresto cardiocircolatorio. Lottiamo con tutte le nostre forze! Siamo una squadra di quattro medici, due infermieri e un tecnico di radiologia. Tutti sul paziente. Riusciamo nell’impresa. Alla fine il bilancio è di tre stent (cilindretti che costituiscono un’impalcatura di metallo che serve a mantenere il vaso aperto). Il sangue scorre. Aspettiamo un paio di minuti per capire che strada prende la situazione. Sembra buona. Forse i nostri sforzi sono andati a segno. Accompagniamo il paziente in terapia intensiva cardiologica e diamo notizie alla famiglia: non possiamo nascondere l’estrema gravità del quadro clinico ma dare un filo di speranza quello sì, la nutriamo anche noi. Sono quasi le 7 del mattino. Vado a casa, faccio una doccia e ritorno in ospedale.
Ci sono pazienti a cui ti leghi particolarmente, sono delle tue creature. Se avesse nuovamente bisogno di aiuto vorrei essere presente. Il pescatore sta male, ha di nuovo la pressione bassa, anche se il quadro elettro- ed ecocardiografico sono migliori del previsto. Lui ritorna cosciente. Parliamo un po’, mi racconta della sua barca, del pescato, delle sue reti che proprio quel giorno avrebbe dovuto ritirare dal mare. Quando potrò uscire? Ha il pensiero al lavoro. Provo a rassicurarlo ma deve pazientare: “Questa notte è come se l’avesse investita un camion”. “U’ capii dutturi!” (L’ho capito, dottore!), risponde lui. Riparliamo con la famiglia spiegando che stiamo facendo tutto il possibile e speriamo in bene, ma la situazione è molto complicata. Vado via alle 14:00. Lo saluto dicendogli: “Ci vediamo domani! Mi raccomando, forza!”. Mi ringrazia mille volte e mi chiede di mettergli il suo telefono vicino. Come negarglielo? Arrivo a casa ma non riesco ancora a riposare, con i pensieri che rimangono in ospedale. Alle 14:45 mi chiama il collega di guardia: “È improvvisamente peggiorato!”. Un quarto d’ora dopo non c’era già più. La complicanza peggiore dell’infarto miocardico: la rottura di cuore. La fine. Il game over, come leggevamo da piccoli sugli schermi dei nostri video-giochi. Senso di frustrazione, rabbia, delusione. Il pescatore aveva 53 anni ed era un padre di famiglia.
Ho deciso di raccontare questa storia per onorare la
Memoria dei morti di covid-fobia. Tutte quelle persone che probabilmente avrebbero potuto salvarsi o, nel peggiore dei casi, avrebbero goduto di un’evoluzione benigna della patologia, ma che per paura di contagiarsi so- no arrivati alle cure e alle attenzioni dei sanitari troppo tardi… o non sono mai arrivati.
Purtroppo queste vittime sono tante, troppe, e rappresentano la parte “sommersa” dell’iceberg coronavirus. Questo è ciò che succede quando la sanità diventa inaccessibile alla popolazione. Mi auguro serva da monito a tutti, per i tempi a venire.
Il mondo è grande ed è bello, ma è molto offeso. Tutti soffrono ognuno per se stesso, ma non soffrono per il mondo che è offeso e così il mondo continua ad essere offeso. Elio Vittorini, Conversazione in Sicilia

Carlo Negri, esperto di marketing farmaceutico e comunicazione in Sanità