Abbiamo incontrato alla Pain week Cesare Bonezzi, direttore della terapia del dolore dei distretti scientifici Maugeri di Pavia, un parere sulla terapia del dolore in Italia
Parlando di dolore oggi, quali sono gli aspetti critici ancora presenti in questa disciplina?
Sono vari, ma l’aspetto più invalidante per la crescita di questa disciplina è la conoscenza. Si fa confusione fra terapia del dolore, obbligo di tutti i sanitari, e la disciplina di terapia del dolore che è una specialità medica, classificata come disciplina ospedaliera, perché oggi negli ospedali ci sono reparti dedicati di terapia del dolore. E’ stata codificata, ma non è stata ancora diffusa la conoscenza in modo opportuno. Disciplina significa diagnosi, terapia e gestione, perché parliamo di cronicità, e quindi di ciò che io definisco pazienti con dolore cronico e pazienti cronicamente affetti col dolore, come accade frequentemente negli anziani,
Sarebbe più corretto chiamarla medicina del dolore?
Ne abbiamo parlato quando abbiamo studiato la legge. Se l’avessimo chiamata medicina del dolore, sarebbe stata di competenza degli internisti, della medicina generale, mentre con terapia siamo riusciti a mantenerla in ambito anestesiologico e chirurgico
Non esiste ancora una specializzazione post laurea in terapia del dolore?
No, si accede tramite la specialità in anestesia e rianimazione. A Bologna, all’università, c’è la possibilità di poter seguire il corso in disciplina della terapia del dolore; è stata una dei primi atenei a istituirlo. C’è bisogno di diffondere la conoscenza per attivare un cambiamento culturale indispensabile per questa disciplina.

La legge 38 del 2010, alla quale ha partecipato alla stesura, cosa ha comportato di positivo nella gestione e cura del dolore?
Ha separato le cure palliative dalla terapia del dolore, con due reti distinte, mentre prima eravamo dentro alle cure palliative; ha identificato il dolore come bisogno di salute, e quindi necessità, e ha iniziato il percorso. Poi abbiamo lavorato nelle Regioni con varie delibere, c’è stata la Conferenza Stato-Regioni che ha definito chi erano gli attori e i corsi di accreditamento dei vari centri, e poi al Ministero, nel 2020 è uscita la delibera sulla rete di Terapia del Dolore, distaccata da quella di cure palliative e da quella pediatrica. L’unico problema è che bisogna attivarla, perché non è ancora presente in tutte le regioni.
A livello informativo, cosa si può fare per coinvolgere i colleghi di medicina generale e di altre specialità?
Si è cominciato a fare qualcosa. La SIMG, Società Italiana di Medicina Generale, ad esempio, ha organizzato vari corsi sulla terapia del dolore, ma non basta, perché i medici di base sono tanti in tutt’Italia, per cui solo pochi hanno sviluppato una certa conoscenza, ma molti sono ancora a zero. A Pavia abbiamo tentato di coinvolgerli direttamente e ha funzionato. Poi è arrivato il Covid e si è fermato tutto. I pazienti sono purtroppo ancora inviati agli specialisti in base alla localizzazione del dolore: se presente alle articolazioni, li mandano dall’ortopedico, se si tratta di nervi, dal neurologo. Nei colleghi giovani è diverso, nei corsi di formazione per MMG c’è il corso in terapia del dolore, ma bisognerebbe cominciare già all’università. Solo in fisiologia c’è una piccola parte dedicata.
Come si può comunicare correttamente col paziente? C’è molta disinformazione
C’è un ufficio ministeriale dedicato che ha cominciato bene, ma poi si è fermato dopo il 2011. Si ha paura che, informando i pazienti sulla terapia del dolore, si pubblicizzino i farmaci, gli antinfiammatori. Bisognerebbe puntare sull’aspetto diagnostico della disciplina: dire che si occupa in prima battuta di diagnosticare il dolore. Quando un paziente va dal cardiologo lo fa per sapere cosa ha, qual è la patologia, e poi la terapia…
Ma questo potrebbe dipendere proprio dal termine terapia?
Sì, ecco perché insisto sulla disciplina della terapia del dolore distinguendola dalla terapia del dolore, anche se sembra un gioco di parole.
Dobbiamo avere più supporto dalla politica? Sì, ma anche dalla stampa scientifica, medica, che è drogata dalle aziende, e mostra poco interesse per la parte diagnostica.

Carlo Negri, esperto di marketing farmaceutico e comunicazione in Sanità.