La madre di tutte le metafore: la donna nel myth-making
Io sono colei che è prima.
ovvero: una visione femminile della Pasqua di resurrezione
O anima reprimi gli occhi dalla vista di cose troppo alte
Giordano Bruno
Il periodo dell’equinozio di primavera ha rappresentato fin dalla preistoria l’archetipo di un simbolismo imperniato sul ciclo di rinascita e rinnovamento dopo la lunga notte invernale.
Per le antiche religioni naturaliste e poi pagane, è il definitivo passaggio della vita dal mondo infero a quello terreno; per le religioni cristiane è invece il passaggio dal mondo terreno a quello celeste.
Nelle sue molteplici forme, l’equinozio di primavera è sempre al crocevia di un pensiero mitico, sacro e religioso che attiene ai simbolismi della crocefissione e della resurrezione.
Si tratta di un capodanno primaverile che ha il suo preludio nel Carnevale, e che porta a compimento l’invisibile e sotterraneo lavoro invernale di tipo seminale che si manifesta in primavera col germogliare dei semi di quell’anno nuovo accolto dalle feste legate al solstizio d’inverno, periodo in cui il vecchio anno moriva per far spazio di tempo al nuovo anno.
Le prefigurazioni della Pasqua cristiana sono già tutte in antichi miti disseminati in ogni luogo abitato da umani che si siano posti domande esistenziali, e che con i riti sacri (oggi più genericamente intesi come festività) tentano di aprire un varco tra il visibile e l’invisibile della vita, e un passaggio tra la dimensione atemporale e quella temporale delle vicende umane e naturali, grazie alle ricorrenze di tempi circolari innestate sul tempo lineare della nostra vita quotidiana.
Attengono alla medesima fonte archetipica dei simboli sacri pasquali i miti di Cibele e Attis; i miti e i riti legati ad Adone, a Tammuz il Pammegas, a Dioniso, a Pan; all’equinozio di primavera cadeva anche la nascita del mondo e il suo futuro rinnovarsi alla fine del Grande Anno del mithraismo, col suo sacrificio rituale del toro e la lotta universale tra le forze benefiche legate a Mithra e il maligno controllato da Ahriman; la Pasqua cristiana, così come quella ebraica, cadono sotto il segno dell’Ariete, e a questo medesimo animale sacro si ricollega l’importante mito greco dell’agnello (ariete) e del vello d’oro, dove l’ariete stesso, inviato dall’altissimo Zeus, trae in salvo Frisso e sua sorella Elle, e diviene poi l’agnello sacrificale gradito agli dei, e successivamente, nel medioevo, il simbolo cristiano del sacramento dell’Eucaristia, ed anche il simbolo ermetico della trasmutazione e del rinnovamento aureo che, come ci ricorda Zolla, avvengono sulla Terra «sotto l’Ariete, come quello che nei cieli annunciano le pecorelle»; infine, conviene in questo contesto di rinascita, annoverare anche i numerosi sposalizi e congiunzioni tra un dio con una vergine (e Zeus ne sa più di una…!) che già sono i preludi dell’Annunciazione cristiana, e di cui è disseminata la mitologia della vasta area geografica compresa tra il Mediterraneo e il Medio oriente.

Giunti all’Annunciazione, siamo stati condotti al principiale punto di gravitazione di tutto quanto attiene alla nascita e rinascita.
Non si dà Annunciazione senza la presenza del femminile.
Il femminile è presupposto per la nascita filiale.
Ancora oggi il femminile è la materia necessaria per qualsiasi processo di nascita.
La stessa parola materia ha il suo etimo in mater ossia madre.
Il medesimo etimo hanno parole potenti quali matrice o matrix, utilizzate in tanti contesti differenti che vanno dalla biologia alla sociologia, dalla matematica alla fisica, dall’informatica all’elettronica, dal mondo dei quanti a quello dell’astronomia.
Oggi, le capacità tecniche e scientifiche della tecnocrazia, insieme a potenti forze sociali e culturali mal amministrate dalla politica e da una scienza che troppo spesso disdegna l’etica e si fa folle, stanno attentando a quel legame sacro (sacro per la sua complessa delicatezza nei processi della vita), stretto ma non indissolubile, tra il principio femminile e quello matriciale per la rigenerazione della vita. Paradossalmente, troppo spesso, sono proprio le donne che stanno, con disarmante semplificazione, accelerando su un delicato processo bio-culturale che punta a inseguire – confondendo banalmente libertà, autonomia e responsabilità – una fallace, mal intesa e pericolosa fluidità (miraggio e falso idolo di libertà) prontamente irrigidita in sterili schemi classificativi e degradativi della unicità e singolarità di ciascun soggetto vivente.
La donna, piuttosto che esprimere con forza e dignità assolute le proprie prerogative uniche e fantastiche, che tra le altre cose comprendono la possibilità della maternità, hanno invece mitizzato i valori dei maschi della loro specie; come cantava Roberto Vecchioni, la donna sta percorrendo la strada per diventare come l’uomo, rischia di essere sempre più definitivamente stronza come un uomo; sola come un uomo; sta giudicando come valore di libertà e autonomia avere il pisello e la bandiera nera, essere la «signorina Rambo […] che fa l’amore a tempo, che fa la corsa all’oro; veloce come il lampo, tenera come un muro, padrona del futuro».
È sulla matrice di questi pensieri, in bilico sull’orlo di una profonda omogeneità e legati insieme da un sottile filo rosso, che ripensando a questo periodo di equinozio di primavera e di riti pasquali e di rinascita, e di nuovi valori e di nuovi generi biologici, mi vengono in mente ancora due cose.
La prima cosa, riguarda la possibilità salvifica di riscoperta della Grande Dea, di quel simbolo di nascita, di morte e di rinnovamento che ha consentito, in antiche culture, la superiorità sociale della figura femminile (al femminile!), tradotta in riti e pratiche religiose di adorazione della Dea Unica.

La Grande Madre o Dea Madre, è una divinità femminile archetipica e primordiale, rintracciabile a partire dalla preistoria, che si materializza in tante e diversificate forme che accomunano un’ampia varietà di culture, di civiltà e di gruppi umani geograficamente anche molto distanti.
Carl Gustav Jung rintracciava il proteiforme archetipo della Grande Madre nella magica autorità del femminile, nella saggezza ed elevatezza spirituale che trascende i limiti dell’intelletto; ciò che è benevolo, protettivo, tollerante; ciò che favorisce la crescita, la fecondità, la nutrizione; i luoghi della magica trasformazione, della rinascita; l’istinto o l’impulso soccorrevole; ciò che è segreto, occulto, tenebroso; l’abisso, il mondo dei morti; ciò che divora, seduce, intossica; ciò che genera angoscia, l’ineluttabile; la sua figura, ci rimanda al simbolismo materno della creatività, della nascita, della fertilità, della sessualità, del nutrimento e della crescita; ma anche di tutti i contrari di queste cose!
Essa fu conosciuta – anche dopo la preistoria -, con numerosi nomi: fu Ashtoreth per i Fenici, Astarte per i Semiti, Ishtar in Mesopotamia, Atar in Arabia, Hathor in Egitto, Afrodite e Cibele nell’antica Grecia e Roma.
Anche un altro psicologo e psicoanalista, Eric Neumann, aveva rintracciato in una formula simbolica sedimentata in riti, miti e religioni dell’umanità primitiva, il valore archetipico della donna-madre: al nostro apparve chiara l’equazione donna=corpo=vaso=mondo; questa equazione simbolica si traduceva nel culto della Madre Terra, ed esprimeva l’interminabile ciclo di nascita-sviluppo-maturità-declino-morte-rigenerazione che caratterizza la vita degli uomini e animali ma anche i cicli naturali e cosmici.
Come abbiamo già accennato, all’alveo della Grande Madre confluisce anche la mitologia della Grande Vergine, e quindi sia le Veneri dell’età della pietra che la Vergine Maria, la Pachamama della mitologia andina, e la Kunapipitra degli aborigeni australiani.
La seconda cosa, riguarda un mito a me molto caro e ai più sconosciuto: il mito della Madre e dei Figli.
Sebbene la simbologia collegata al femminile venga dettagliatamente descritta da personaggi del calibro di Jung, che ci mostra ed elenca come«l’archetipo della Grande Madre possiede una quantità pressoché infinita di aspetti», e sebbene ai nostri giorni esista un mezzo potente come Google, del mito della Madre e dei Figli non si trova traccia se non negli scritti originali del suo autore e in rari testi specialistici sullo stesso.
Il mito della Madre e dei Figli accompagna il ben più noto Mito di Atteone di Giordano Bruno; come quest’ultimo mito, anche quello attiene al campo analogico e metaforico della conoscenza e vita umana.
Nel mito del Nolano, la Madre rappresenta la Natura e in generale quella funzione naturale che vive nella realtà della materia e della forma, negli oggetti reali e duri del mondo oggettivo; i Figli sono invece quella funzione intellettiva e astratta della coscienza e dell’immaginazione e fantasia.

In una metafora moderna: possiamo immaginare la Madre come l’hardware di un sistema informatico e i Figli come i software di quello stesso sistema.
La madre vede che i suoi figli vogliono abbandonarla: i pensieri, sempre più astratti e disancorati dalla loro matrice, dimentichi della costituzione materica di se stessi, pensano di potersi affrancare dalle proprie necessarie radici reali e vivere una vita propria, staccata dal mondo delle cose e della materia, seppur essi stessi materia.
È come se un programma di computer volesse vivere una vita propria fuori da qualsiasi macchina in grado di leggerlo e farlo girare.
È come il mondo platonico delle idee, che assurdamente vive fuori dal mondo e dell’essere, in qualche posto altro e in qualche luogo e in qualche forma e di qualche materia che non sono né luogo, né forma, né materia…
È come il paradiso e le anime che non vogliono avere un loco nel mondo del reale ma avere la stessa consistenza di quell’iperuranio platonico.
È come il pensiero e la coscienza di un uomo che vorrebbero essere liberi, ma tanto liberi al punto da non volere più avere bisogno di un corpo che respiri, beva, mangi, agisca e in definitiva viva per rendere possibili quegli stessi pensieri e quella coscienza che si vuole liberare da tutta la materia, anche quella che costituisce se stessa.
È come una umanità che nella propria fluidità non voglia più essere matrice di nuova vita.
È come un padre di famiglia che non amministri i beni di famiglia in considerazione delle necessità materiali di vita del coniuge e dei figli ma con l’idea di abitare su iperuranio.
È come un’azione politica o sociale o economica che vuol dare tutto a tutti pur quando nel reale non c’è tutto per tutti.
È come una pretesa di vivere pur togliendo le condizioni necessarie e indispensabili alla vita!
Ma è anche come un’anima che si vuole ricongiungere con il proprio desiderio di andare oltre!
L’anima di Bruno, come quella di tutti noi, ha contratto un patto con la materia: quella di una unità indissolubile e coestensiva col corpo.
Ora accade – nel mito che sto raccontando -, che i pensieri (Figli), facendosi sempre più astratti ed eterei, alti e ascensivi, vogliano dissolvere il loro legame con la materia.
La Madre cerca di correre ai ripari: invia dei messaggeri (pensieri a cui raccomanda di non rimanere essi stessi sedotti da quei fratelli ribelli) a quegli “alti pensieri” che stanno per abbandonarla.
I messaggeri chiedono agl’ alti pensieri che questi, in nome e ricordo delle domestiche fiamme, in nome degli affetti, della generazione e della vita, non la lascino.
Il suo amore materno per i figli vorrebbe far tenere lontano i figli stessi da quel baratro bruciante che potrebbe facilmente annientarli; la Madre cerca di persuadere i figli a rientrare nei propri ranghi di potenze naturali…
La donna-madre che pur vuole tutto il bene e le virtù possibili per i suoi figli, anche cerca di ammonirli sul rispetto dei limiti oltre i quali l’armonia umana è persa e la vita stessa, così come la conosciamo su questa Terra, diviene impossibile.
La donna-madre, simbolo di vita, insorge per mantenere quei limiti che sono necessari alla sopravvivenza dei suoi figli.

Ricordo che stesso Gesù, per il proprio sacrificio, dovette prima allontanare da sé sua madre…
Accade talvolta che la Madre fallisca nel suo intento di difesa!
La madre non può vedere né capire quegli alti pensieri, ma ama i propri figli e perciò è pronta comunque a seguirli; anzi, per quell’amore, ella è costretta a seguire il destino di quei figli…
Il mito del Nolano mi riporta alla mente e al cuore una terza cosa che non avevo prima previsto ma che pure lego a questo filo rosso pasquale: la Mater Dolorosa.
Non è forse una Mater Dolorosa, quella che abbiamo visto nel mito di Bruno?
La Mater Dolorosa è la madre che soffre per la morte del o dei figli.
Nella mitologia greca, la passione di Demetra, ossia il dolore che soffre la dea per la scomparsa della figlia Persefone, si inserisce bene nel contesto pasquale, poiché nella vicenda si narra di un rapimento matrimoniale che è fondatore di una morte simbolica a cui segue una fecondità nel suo aspetto ciclico di rinascita annuale.
Nel cristianesimo, il tema della Vergine Addolorata è stato ampiamente canonizzato e rappresentato in numerosi esempi; il più noto è la Pietà di Michelangelo.
Nel mondo greco, aveva ricevuto una canonizzazione il motivo del compianto materno per la sorte del figlio vittima della “bella morte” eroica (cioè in guerra).
Come non ripensare allora alla follia moderna delle guerre in corso?
Come non ricordare (e calare nel presente) il dolore ma anche la furia assassina di Ecuba, la madre che vide morire tutti i suoi figli e i suoi nipoti e il marito sotto le mura di Troia?
Chi non sente il pianto – ululante come una cagna -, di Hekábe (e allora anche Ecuba dette inizio al lamento) all’arrivo del cadavere di Ettore, e poi per la morte del giovane Polidoro, (assassinato da quel Polimestore che avrebbe dovuto proteggerlo!); e chi non sente la ineluttabile tragedia in cui la regina annega senza possibilità di scampo, quando poi, resa cieca dalla collera, uccide con i sassi i due figli del re Tracio Polimestore (reo di aver infranto il sacro vincolo dell’ospitalità e di aver disonorato il cadavere del figlio Polidoro gettandolo in mare), e infine gli si scaglia contro per accecarlo e consumare così la sua vendetta, in una dinamica di escalation di violenza simmetrica?
Perché io sono colei che è prima e ultima
Io sono colei che è venerata e disprezzata,
Io sono colei che è prostituta e santa,
Io sono sposa e vergine,
Io sono madre e figlia,
Io sono le braccia di mia madre,
Io sono sterile, eppure sono numerosi i miei figli,
Io sono donna sposata e nubile,
Io sono Colei che dà alla luce e Colei che non ha mai partorito,
Io sono colei che consola dei dolori del parto.
Io sono sposa e sposo,
E il mio uomo nutrì la mia fertilità,
Io sono Madre di mio padre,
Io sono sorella di mio marito,
Ed egli è il figlio che ho respinto.
Rispettatemi sempre,
Poiché io sono colei che da Scandalo e colei che Santifica.
Inno a Iside
(Rinvenuto a Nag Hammadi, Egitto risalente al III-IV secolo a.C.)

Beniamino Casale, responsabile IPAS Terapie Molecolari e Immunologiche in Oncologia – AO dei Colli – Ospedale Monaldi.