La metafora del Fiore del deserto

“Qui su l’arida schiena

del formidabil monte

sterminator Vesevo,

la qual null’altro allegra arbor né fiore,

tuoi cespi solitari intorno spargi,

odorata ginestra,

contenta dei deserti…”

La Ginestra di Giacomo Leopardi

La rilettura dei versi immortali di Giacomo Leopardi, posti a conclusione dei suoi Canti, in conformità alla volontà espressa del Poeta, fanno uscire dal misterioso forziere del Tempo, una sequenza ininterrotta di sensazioni e di ricordi che mi spingono, dolcemente, non certo ad affrontare temi complicati ed argomenti che richiederebbero una ben diversa predisposizione d’animo da parte di chi legge e di chi scrive – cosa che di questi tempi è per tutti un lusso – ma, questo sì, a constatare l’esistenza di un legame, di un nesso tra la ginestra cantata da Leopardi, “fiore del deserto” e la nostra vita, perché la ginestra non è soltanto un fiore, ma è anche una meravigliosa metafora.

Che fiore strano, affascinante, eppure pochissimo amato, poco ricercato e quasi sconosciuto ai giovani!

L’odorosa ginestra cresce in tutto il bacino del Mediterraneo ed il suo nome comprende specie diverse, anche se molto simili tra loro. Predilige i suoli aridi, sabbiosi, argillosi, soleggiati, ma è presente anche al di fuori dei nostri climi e nell’arcano linguaggio dei fiori simboleggia, in molti paesi dell’Europa meridionale e del Medio Oriente, la modestia e l’umiltà perché fiorisce spontaneamente anche in terreni particolarmente esposti alla furia degli elementi, mentre in Inghilterra ed in Francia, per via del suo colore giallo oro, è simbolo di luminosità e di splendore.

Era nota nell’antichità greco – romana per il suo miele profumato e per le caratteristiche della sua corteccia, ricca di tannini e quindi adatta alla concia delle pelli ed all’utilizzo della sua fibra nella produzione di stuoie e corde.

Di questo bel fiore ci parla già quella grande figura di naturalista erudito e di coraggioso comandante militare che fu Plinio il Vecchio, il quale credeva che, proprio a causa del suo colore giallo splendente, fosse addirittura possibile rinvenire nelle ceneri di ginestra tracce del prezioso metallo. Mentre, nell’Inghilterra medioevale, già Enrico II e, prima di lui, Goffredo V d’Angiò iniziarono ad utilizzare il ramo di ginestra come simbolo araldico del casato, da cui il soprannome di Plantageneti, derivato dalle parole “planta genistae”, pianta di ginestra.

Nel mondo celtico, invece, a causa del suo color giallo, così luminoso, era associata al culto dell’Apollo celtico, divinità che era espressione del chiarore della Luce e della trasparenza e purezza dell’Acqua.

Nella tradizione cristiana, infine, la ginestra sembra non avere un particolare fascino. Le strane leggende nate intorno al fiore dicono, ad esempio, che le ginestre non vollero offrire riparo alla Sacra Famiglia durante la fuga in Egitto ed altre ancora, più legate al folclore locale, dicono che furono le fronde delle piante di ginestra, agitate rumorosamente dal vento, ad attirare l’attenzione dei soldati che arrestarono Gesù.

Che fiore strano, questa ginestra! La si può amare molto, la si può considerare un fiore nobile o un fiore insignificante, a seconda della parte del mondo in cui ti trovi a vivere e della storia o delle storie che volente o nolente porti dentro di te: quelle tue, personali, o quelle del tuo paese e della tua Patria, storie fatte di grandi accadimenti e di piccoli eventi, di grandi memorie e di piccoli ricordi: in poche parole, le tue tradizioni, il tuo bagaglio spirituale, il tuo mondo, quello in cui sei nato e vissuto ed i mondi con cui ti sei confrontato nel bene o nel male.

Ed ecco che seguendo questo percorso interiore, percorso della mente e dell’anima, la ginestra può diventare metafora, come nel Canto del nostro grande Giacomo Leopardi.

 Fiore fragile e coraggioso, destinato, come dice il Poeta, a soccombere ad ogni eruzione del monte Vesuvio, la sua fragilità ed il suo coraggio assurgono a simbolo della fragilità della condizione umana, assoggettata alla legge crudele della Natura, matrigna e tetragona al destino degli uomini. Ed i versi dedicati a questo “fiore del deserto” diventano, allora, una sorta di testamento spirituale del Poeta e con parole di sofferta bellezza Giacomo ragiona sul destino del genere umano e rivolge un invito agli uomini affinchè prendano piena e definitiva consapevolezza della realtà, cioè della propria infelicità e su questa consapevole certezza si stringano tra loro, si uniscano per far fronte comune contro la Matrigna che di questa infelicità è causa.

Appello sublime di un animo che è approdato ad una concezione di colleganza fraterna tra gli uomini, di cessazione della lotta di tutti contro tutti, di solidarietà assoluta contro il vero inesorabile nemico del genere umano. Ultimo e definitivo approdo di un Uomo, di un Poeta, di un Filosofo che ha rappresentato davvero, in forma drammatica, la crisi dell’uomo moderno, di quell’uomo copernicano” a cui sono state tolte le certezze tradizionali senza sostituire ad esse altre certezze, così che egli approda ad una sua personale certezza, senza dubbio dolorosa, nuda, ma accolta con estremo vigore e tale che da essa scaturisce più preciso e nitido il compito degli uomini e la necessità dell’umana solidarietà.

Ho visto anche io tante volte le ginestre del Vesuvio, perché in certi posti della Montagna è possibile ammirarle ancora, quando viene la loro stagione. E quando il vento le agitava ho rivolto qualche volta il pensiero alle loro sorelle, quelle che ho visto fiorire sul bel lungomare di Beirut che tutti chiamano “La Corniche”, qualche anno dopo la fine di quella guerra che aveva diviso la città ed il paese. Ce ne erano tante, allora, sferzate dall’aria di mare impregnata di salsedine. Vicino ad un chiosco che vendeva fantastiche spremute di melograno, parlammo con un gruppo di giovani del posto, nostri coetanei, presentatici da un amico comune. Avrei voluto farmi raccontare quello che avevano vissuto, ma non lo feci, per una sorta di pudore inconscio e per una forma di rispetto: qualcuno mi aveva detto che i cittadini di Beirut non amavano parlare del recente doloroso passato con gli stranieri.

Però, quasi leggesse nei miei pensieri, lei, guardando oltre la siepe di ginestre ed i frangiflutti, lontano lontano, lì dove il cielo ed il male si toccavano, disse come parlando a se stessa: “Speriamo che tutto possa ricominciare, ma stavolta in modo diverso”

A Beirut, da sempre, tutti conoscono tutti ed avere informazioni è infinitamente più facile di quanto possa in apparenza sembrare. Ed è così che per caso, tempo fa, da un amico che aveva avuto a sua volta la notizia da un suo amico, appresi che lei (che importa il nome) era morta all’età di sessantaquattro anni, dopo una lunga malattia. Era stata un’icona per la sua Comunità (che importa dire quale fosse…), l’aveva difesa con le armi durante la guerra, in situazioni disperate, maturando poi la consapevolezza che era possibile combattere anche senz’armi, guardando il mondo in una prospettiva diversa e difendendo la sua terra attraverso l’impegno a favore della vita ed in nome di una solidarietà fatta di opere e di dedizione nei confronti di chi ha bisogno d’aiuto concreto e non di parole vuote.

Una storia tra le tante di un mondo che non è mai cambiato, ma che potrebbe iniziare a cambiare se solo acquisissimo maggiore consapevolezza di noi stessi e del grande ruolo che ognuno di noi può svolgere insieme agli altri.

Una storia che il Poeta di Recanati avrebbe ascoltato volentieri, annuendo con commossa partecipazione e con benevola condiscendenza… e con una punta di disincanto.

Una storia di uomini e di fiori del deserto e di speranza.

Michele Chiodi, già dirigente di istituti finanziari, collabora con periodici e associazioni culturali

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