La pandemia che ancora ci attanaglia ha avuto senza dubbio il suo impatto più violento e immediato sulla salute e sulle strutture sanitarie, ma non meno aggressivi e brutali saranno i risvolti sociali che l’umanità si troverà ad affrontare nei prossimi mesi, e probabilmente nei prossimi anni.
Il Covid-19 ha completamente dissestato, eradicato, rivoluzionato le consuetudini d’intere popolazioni, sconvolgendone i comportamenti quotidiani per acquisirne di nuovi.
Nella più ottimistica delle previsioni, a una DE-costruzione così ampia di modelli di vita e di abitudini potrebbe seguire una RI-costruzione; in un’ottica invece più razionale, si deve sperare (e impegnarsi!) affinché la tappa successiva non sia quella di una DI-struzione.
Nel futuro prossimo avremo bambini disabituati alla socialità, ragazzi incapaci di condividere spazi e priorità, giovani che faticheranno a tornare in ufficio rispettandone regole e orari, adulti che cammineranno guardinghi per le strade, limitando il più possibile le uscite, e anziani sempre più soli e malinconici. Di contro, potremmo incappare in scenari opposti: feste e riunioni con cadenze esasperanti, locali pieni all’inverosimile, nonni e genitori nuovamente catapultati nella frenetica e festosa vita familiare, mezzi di trasporto affollatissimi e maleodoranti.
Il sociologo Philip Strong, nel 1990, in seguito alla diffusione dell’AIDS, teorizzò l’Epidemic Psychology Model, approccio tuttora applicabile: le epidemie non sono un fenomeno riconducibile solo alla medicina e alla fisiologia, ma anche alla sociologia, in quanto esse hanno un forte impatto sulla società e sulle dinamiche sociali.
Ogni pandemia genera tre epidemie psicosociali:

- Epidemia della paura: è il momento in cui panico, timori, ossessioni, prevalgono su tutto il resto, compresa la razionalità; si svuotano negozi, si apre la caccia all’untore, si controlla il comportamento degli altri;
- Epidemia delle spiegazioni e delle moralizzazioni: è la fase nella quale intervengono sia esperti che persone comuni; si condanna tutto ciò che potrebbe aver causato la diffusione del virus, si avanzano ipotesi, si cercano significati religiosi, medici e morali, si prospettano soluzioni, si individuano rimedi;
- Epidemia dell’azione: interessa soprattutto i Governi e le Amministrazioni Pubbliche, che in questa fase s’impegnano affinché si faccia qualcosa, anche se fare qualcosa può significare contrapporsi ad alcuni diritti costituzionali; si promulgano delibere, si controllano gli spostamenti, si chiudono attività commerciali.
La storia più recente, sebbene sembri già lontanissima, ha visto l’umanità risorgere da un’altra pandemia, quella dell’Influenza Spagnola: dalla quale ci siamo rialzati e ripartiti, nonostante gli ospedali, le risorse, i mezzi, non fossero chiaramente paragonabili a quelli di cui disponiamo oggi.
Una pandemia finisce quando la trasmissione del virus è controllata e i casi diminuiscono fino alla definitiva scomparsa. Ma la Medicina sociale c’insegna che una pandemia può finire anche quando il popolo, ormai stanco e bisognoso di riappropriarsi della propria quotidianità, inizia a non riconoscerne più i pericoli, come se l’emergenza fosse finita nonostante il virus continui a circolare, favorendo così una nuova diffusione della stessa.
Il futuro ci dirà cosa, di questa pandemia, rimarrà impresso nei comportamenti, e non solo sui libri di storia. Un giorno torneremo a vivere in gruppo, a stringerci la mano, ad abbracciarci e a sorridere non solo con gli occhi: il come e il quando dipendono, in gran parte, da noi.
Di certo, ogni azione deve essere guidata dal buonsenso e dalla capacità di non vanificare i risultati raggiunti con comportamenti responsabili e civili. E quando arriverà il giorno in cui non avremo realmente e finalmente più motivo di averne paura, il Covid-19 sarà definitivamente sconfitto, e la voglia di vivere potrà prevalere, trionfante, su quella di sopravvivere.

Rosa Maria Bevilacqua, Sociologa, A.O.R.N. “San Giuseppe Moscati”- Avellino, Delegata alla Sanità ASI (Associazione Sociologi Italiani)