Si è sempre affermato che la cucina napoletana fosse essenzialmente povera, il che è vero nella preparazione dei pasti di tutti i giorni del popolo, della borghesia e di una non trascurabile parte dell’aristocrazia, costretta quest’ ultima a risparmiare sul cibo per potersi permettere un fasto da scena.
Ma il napoletano, proprio per rifarsi dei momenti di solo pane, verdure e qualche modesto condimento, elaborava con sapienza e passione pietanze ricche nelle ricorrenze di Pasqua, Natale, Carnevale, nei matrimoni, funerali, compleanni.
Conosciuti come mangiafoglie fino al 1500, con l’arrivo dall’ America dei pomodori, delle patate, delle melanzane, dei peperoni, dei fagioli e del cacao la cucina napoletana subì una profonda trasformazione.
Questi nuovi ingredienti, con i loro caratteristici aromi, contribuirono a modificare radicalmente la caratteristica dominante agrodolce che aveva contraddistinto, fino ad allora, la cucina all’ombra del Vesuvio.
A Napoli divennero popolari vari tipi di pasta, come perciatelli, ziti, paccheri, fusilli, spaghetti, vermicelli e linguine.
La diffusione di questo nuovo alimento spinse a ricercare diversi tipi di salsa adattati alla specifica forma della pasta.

E tra i sughi da tutti noi preferiti non può mancare la classica Genovese, da condire con gli ziti, ovvero con i maccheroni della zita, cioè della sposa, quindi adatti a santificare le feste.
Prima di accennare alla ricetta di questo squisito sugo, bisogna però chiarirci sull’origine del nome e qui le leggende si moltiplicano.
Una romantica storia narra di un marinaio che, tornato a casa dopo un lungo viaggio in mare, nel tentativo di riprodurre un piatto assaggiato in Liguria, abbia sbagliato il procedimento, arrivando a un risultato ottimo, ma completamente diverso dall’originale. Ma di questa salsa non c’è traccia in Liguria…
Ipotesi più autorevoli, invece, percorrono a ritroso la storia napoletana fino al periodo della dominazione aragonese del XV secolo, epoca in cui tra le mille trattorie del porto pare ci fossero dei cuochi genovesi, specializzati nella preparazione di un ottimo sugo di carne e cipolle, con il quale i napoletani condivano la pasta.
A seguito delle varie dominazioni, principalmente quella francese e quella spagnola, col tempo a
Napoli si è delineata la separazione tra una cucina aristocratica e una popolare.
La prima, caratterizzata da piatti elaborati e di ispirazione internazionale, sostanziosi e preparati con ingredienti ricchi, come i timballi o il sartù di riso, mentre la seconda legata ad ingredienti della terra.
Vincenzo Corrado, cuoco e letterato italiano, ne parlò nella sua opera Cucina Napoletana nella prima edizione del 1832; successivamente ne parlò anche il Cavalcanti, nobile napoletano esperto di cucina.
In ogni caso ci siamo capiti, la Genovese è un sugo di carne e cipolla, che si fondono insieme dopo ore e ore di cottura lenta, rito meno celebrato del ragù ma non per questo di importanza minore.
Veniamo quindi ai suggerimenti per gli ingredienti.
Le cipolle saranno quelle ramate di Montoro, in provincia di Avellino; sconsiglio quella di Tropea e quella bianca perché troppo ricche di acqua.
Per la carne, che a Napoli è sempre mancata, tranne forse a corte, il pezzo più usato è il lacierto (girello in italiano), oppure il muscolo. A volte, specie a Pasqua, ho utilizzato anche le costolette di agnello, ma il sapore è diverso, con sovrastante tendenza dolce.
Il formato di pasta, come già accennato, è gli ziti (nei matrimoni la zita è la sposa), spezzati a mano; vanno bene anche gli ubiquitari paccheri, i rigatoni o meglio ancora i mezzanelli, anche questi da spezzare a mano.
Il condimento sarà l’olio extravergine di oliva anche se in passato qualcuno utilizzava la sugna, di costo assai inferiore; a completamento, il classico mazzetto tritato di sedano e carota, sale e pepe quanto basta.

La cottura della salsa va avanti per ore, a fuoco lento, fino a raggiungere un colore marroncino denso, compatto.
Al momento di condire la pasta con la salsa, si può lasciare qualche pezzetto di carne e completare con aggiunta di parmigiano grattugiato.
L’abbinamento col vino può causare problemi nei meno esperti, ma ecco alcuni suggerimenti: se vogliamo optare per un abbinamento territoriale, essendo un piatto campano, consiglio un ottimo Fiano di Avellino, meglio se passato in botte, perché c’è bisogno di un vino strutturato ma fresco, quindi con buona acidità e mineralità, in grado di pulire il palato.
In alternativa, un Coda di Volpe del Sannio o del Taburno, ma il vino che meglio di tutti è in grado di accompagnare questo splendido piatto è il prestigioso altoatesino Gewurtztraminer.
Buon appetito!

Rino Sarrantonio, gastroenterologo dirigente medico UOC Gastroenterologia, P.O. Santa Maria della Pietà