Una volta l’insegnamento scolastico tendeva a privilegiare soprattutto l’esercizio della memoria, che, secondo il pensiero di Cicerone, “diminuisce se non la si esercita”. Questa frase è stata la guida degli studenti che fin dalle elementari erano chiamati ad imparare a memoria le poesie per bambini o i nomi dei gruppi di montagne che formano la catena delle Alpi: quest’ultimi sono talmente tanti che è stato necessario ricorrere ad un trucchetto mnemonico per ricordarli tutti. Per memorizzarli si inventò la frase: “Ma Con Gran Pena Le Reti Cala Giù”, che permetteva utilizzando le prime lettere della frase stessa di avere la risposta e cioè “Marittime, Cozie, Graie, Pennine, Lepontine, Retiche, Carniche, Giulie”!
Quando poi si passava al Liceo la sfida continuava, si imparavano a memoria i canti più importanti della Divina Commedia e molti versi continuano ancora a far parte del nostro linguaggio quotidiano: “Non ragionar di lor ma guarda e passa”; “Uscimmo a riveder le stelle”; “Senza infamia e senza lode”; “Lasciate ogni speranza o voi che entrate” e tanti altri.
Il Professore di Italiano interrogava l’allievo con una domanda… diabolica: «Come sono suddivisi i dannati, per ciascuna delle proprie colpe, nelle dieci bolge dell’ottavo cerchio dell’Inferno?», e l’arguto studente rispondeva correttamente utilizzando una frase che aveva inventato e che sviluppava nella mente: “SA, SIBIL, COSE, FA” che si traduceva in Seduttori, Adulatori, Simoniaci, Indovini, Barattieri, Ipocriti, Ladri, Consiglieri, Fraudolenti, Seminatori discordie e scismi, Falsari”. Aveva utilizzato tutte le iniziali dei peccati per sette volte e le due lettere iniziali per le ultime tre. Con questo sistema mnemonico aveva fatto una bella figura ed ottenuto un buon voto!
Questo schema mentale è però ingenuo se si pensa alle tecniche mnemoniche che deve aver utilizzato Dante, che è conosciuto anche per la sua prodigiosa memoria. Boccaccio, autore del “Trattatello in laude di Dante” (non lo ha conosciuto, ma ne ha riportato la descrizione fisica, secondo quanto riferitogli da chi invece lo aveva incontrato), lo descrive di altezza media, con il volto lungo, mascelle grandi, occhi grossi, naso aquilino, bruno di pelle, labbro inferiore sporgente e barba e capelli crespi e neri.
Boccaccio racconta che Dante, in esilio a Verona, camminando per strada, passò dinanzi ad un gruppo di donne, una delle quali, guardandolo, sussurrò alle altre che egli era quello che era sceso all’Inferno, al che un’altra donna disse che doveva essere vero perché era bruno e aveva la barba crespa per il caldo e il fumo che c’era laggiù. Dante aveva ascoltato ed orgoglioso che la sua opera fosse popolarmente conosciuta si allontanò sorridendo.

Dante, di cui conosciamo la figura grazie all’affresco di Giotto (o della sua scuola) conservato al Museo del Bargello di Firenze, è rappresentato nella sua veste rossa che era quella che identificava l’appartenenza all’Arte dei medici e speziali: ciò non significava che chi vi appartenesse fosse un esperto in medicina o erbe medicinali, però per accedere alle cariche pubbliche era necessario far parte di una Corporazione e Dante scelse quella per svolgere attività politica.
Il Poeta ha avuto una vita anche avventurosa (nel 1289 nella battaglia di Campaldino, fra Firenze e Pisa, combatté come cavaliere con lancia nella prima fila di attacco e pensando che fra i Pisani ci furono 1400 morti non è difficile immaginare che abbia fatto il suo dovere) e travagliata per le sue convinzioni politiche, per le quali ha pagato con l’esilio lontano dalla sua città (punito con la confisca dei beni e condannato al rogo se catturato), errando senza famiglia, in cerca di ospitalità e protezione presso i Signori dell’epoca che certamente non brillavano per cultura:
“come sa di sale il pane altrui e come è duro calle scendere e salire per le altrui scale”.
Si racconta, infatti, che quando era ospite dei Della Scala a Verona, questi apprezzassero il loro buffone più di lui: ad un amico che gli fece osservare questa preferenza Dante rispose: «Non sono sorpreso: ogni simile ama il suo simile».
Nonostante tutte le difficoltà che hanno pesato sulla sua vita, grazie al suo “multiforme ingegno”, ha realizzato la Commedia (la definizione di Divina è stata data da Boccaccio), un capolavoro assoluto della letteratura mondiale. Un arcipelago di riferimenti di ogni genere; teologia, astronomia, matematica, poesia, storia, filosofia e ogni quanto appartenga allo scibile umano di quel tempo, il segno di una cultura straordinaria, frutto di un numero incredibile di letture e studi, di un ineguagliabile fantasia e di una smisurata memoria.
Se possiamo immaginare che nel periodo fiorentino Dante abbia potuto studiare su libri di varia natura in suo possesso o presso le biblioteche dei conventi, che erano i depositari della cultura, appare più difficile che abbia potuto continuare a perfezionare le sue conoscenze nel periodo dell’esilio che va dal 1302 al 1321, anno della sua morte (celebriamo il 21 settembre i 750 anni dalla sua scomparsa).
Le sue condizioni economiche erano modeste: non poteva permettersi una biblioteca personale e nemmeno l’acquisto dei volumi copiati dagli Amanuensi e, in un secolo in cui non era stata ancora inventata la stampa e la diffusione dei libri era limitata, il possesso dei libri era un lusso per pochi privilegiati.
Forse aveva portato con sé i suoi autori più amati: Omero, Boezio, Virgilio, San Tommaso e i suoi libri preferiti come la Bibbia e la Poesia provenzale, ma il continuo vagabondare presso i Signori di Verona, Forlì, Lucca, Ravenna rendeva difficoltosa la disponibilità di fruire di libri in un’età in cui l’analfabetismo era dominante: non c’era “Internet” e quindi non poteva attingere a molte fonti se non a quelle miriadi di informazioni già impresse nella sua prodigiosa memoria o ai tomi conservati nelle biblioteche dei monasteri. Apriva quello che nella “Vita Nova” definisce il libro della memoria e recuperava tutti i segmenti delle sue conoscenze raccolte nel labirinto della sua eccezionale mente.

Sembrerà incredibile ma non esiste un’opera o una rima di Dante pervenuta a noi con la sua scrittura, non conosciamo la sua calligrafia e tutto quanto ha scritto ci è noto solo grazie al lavoro degli Amanuensi.
È stato ospite di tante Corti italiane, ma storicamente non è attestata la presenza di Dante a Napoli, pur essendo la città un polo culturale all’epoca Angioina, e pur avendo egli il merito di aver collocato in “Paradiso” Carlo Martello, fratello di Roberto d’Angiò, che aveva conosciuto a Firenze.
Si racconta, però, che fu invitato dal Re Roberto d’Angiò a Napoli, essendo già noto il suo genio letterario: Dante fece un lungo viaggio e arrivò nella Capitale del Regno all’ora di pranzo tutto impolverato e con i vestiti sporchi. Era impresentabile, per cui fu messo a sedere in fondo al tavolo dei commensali, dove gli furono serviti cibi di poco pregio. Il Poeta fu ignorato per tutto il pranzo, per cui alla fine, offeso, ripartì per tornarsene a casa. Quando più tardi il Re non lo vide più si rese conto dello sgarbo usatogli ed ordinò ai suoi cavalieri di raggiungerlo e di riportarlo a Napoli: ci volle del tempo per trovarlo, ma finalmente lo convinsero a tornare. Il Re si profuse in mille scuse e lo volle accanto a sé alla tavola reale: Dante si presentò con abiti eleganti e puliti, ricevendone i complimenti, ma appena si iniziò il pranzo, cominciò a buttarsi addosso il sugo delle pietanze, a far cadere il vino sui vestiti, a sporcarsi con l’unto dei grassi la camicia.
Il Re lo guardava stupito e gliene chiese la ragione, al che il Poeta rispose che quando era venuto la prima volta lo avevano ignorato in considerazione dei suoi vestiti impolverati e sporchi, trattandolo come un poveraccio ed allora adesso poiché lo avevano lodato per l’eleganza e la freschezza dei suoi panni gli sembrava giusto che anche questi assaporassero le vivande apparecchiate. E il Re capì la lezione.
Una cultura universale e una straordinaria memoria, se nella Commedia può parlare non solo dei grandi personaggi, ma anche di quelli minori della Mitologia, dell’Iliade, dell’Odissea, della storia, di fiumi, di montagne, di costellazioni, ricorrendo a tecniche mnemoniche insegnate diffusamente nel Medio-Evo per fissare nella memoria il maggior numero di conoscenze. Era l’epoca delle gare dialettiche in cui si scontravano opposte scuole di pensiero, per cui i sostenitori di una linea dovevano avere la mente sempre pronta e lucida per controbattere la tesi dell’avversario.
A tale proposito Boccaccio racconta che il Poeta si recò a Parigi, alla Sorbona (ma ciò non è storicamente dimostrato), e stupì per le sue conoscenze e per la capacità di argomentare meritando le lodi dei “valenti uomini”.

La sua memoria era così leggendaria che circolò un aneddoto: un giorno Dante si trovava a Firenze ad ammirare il panorama, quando fu avvicinato da un tale che gli chiese quale fosse, secondo lui, il boccone più buono. Dante rispose “l’uovo”. Passarono gli anni e quel tale, incontrandolo di nuovo, gli chiese «come?» e il Poeta subito disse «con il sale».
La Commedia è disseminata di parole come ricordo e memoria “Ricordati di me che son la Pia”; “Nessun maggior dolor che ricordarsi del tempo felice nella miseria”; “Che nel pensier rinnova la paura” e tantissimi altri, ma in particolare un’ulteriore prova che Dante avesse fede nella memoria si trova nel Secondo Canto dell’Inferno, quando dice “O Muse, o alto ingegno, or m’aiutate; o mente che scrivesti ciò che io vidi, qui si parrà la tua nobilitade”; la mente ovvero la memoria deve dimostrare la sua forza aiutandolo a ricordare tutto quanto ha visto nel suo viaggio.
La invocazione non è casuale: infatti, la madre delle Muse è Mnemosine, la dea della memoria.
Dante è immortale e per lui non vale questo pensiero “L’oblio è una seconda morte che gli animi grandi temono più della prima”.

Sergio Giaquinto, Giurista, già Dirigente Amministrativo dell’A.O. dei Colli, cultore di Storia e Archeologia