È un mercoledì di luglio dello scorso anno. Il caldo afoso incalza, e io alle 12:30 ho un appuntamento in ospedale. Il DH del reparto di pneumo-oncologia è al piano terra dell’imperioso edificio immerso nel verde. Come sempre, entro direttamente dall’ingresso del DH, evitando quello principale per godere dell’aria pura e della vegetazione rigogliosa facendo quattro passi.
La sala d’attesa è asettica come quella di quasi tutti i reparti: un dispenser per le bibite, delle sedie poco ergonomiche per pazienti e familiari, una TV accesa sulla parete che trasmette le news. Lo speaker parla ma nessuno ascolta, nessuno guarda. Le persone sono in silenzio, si intrattengono con gli smartphone, immersi nei loro pensieri. Sui loro volti si può leggere ansia, preoccupazione, rassegnazione, paura. Attraverso la sala e mi dirigo verso il Reparto. Sulla sinistra c’è la Medicheria, con le cartelle cliniche e il programma della giornata. Qualcuno, al banco, attende il suo turno; altri in piedi, fuori la porta di accesso, con in mano l’impegnativa.
Entro nel DH: sulla sinistra due sale per le chemio, persone stese sui lettini con gli aghi in vena, accudite dagli infermieri. Qualche familiare seduto accanto, a fare compagnia. Sulla destra una prima stanza: medici. La dottoressa visita una paziente. Continuo il percorso che si snoda in due diramazioni: a destra e sinistra ancora stanze, medici impegnati in visite e terapie. La porta dell’oncologo con cui ho appuntamento è chiusa. Busso e apro lentamente. È con due persone e mi fa cenno di aspettare. Chiudo e mi posiziono davanti alla sala riunioni centrale. Un’anziana signora è accanto a me con una cartellina in mano. Camici e tute bianche escono frettolosamente dalle stanze per entrare in altre.
La signora cerca di fermare ogni camice o tuta che le passa vicino. Le dicono di aspettare, sono tutti impegnati con altri pazienti. I minuti passano e la signora è sempre lì, con la sua cartellina in mano, sola. Chissà da quanto tempo aspetta. Forse la stanchezza, il caldo, il non essere ascoltata, fatto sta che la signora comincia a inveire con un crescendo rossiniano da far invidia a un mezzo soprano. Camici e tute bianche continuano a passarle vicino, ma nessuno si ferma. Non possono. Per ogni paziente la propria malattia è la più importante, eppure i sanitari devono prendersi cura di tutti. Non siamo in un Pronto Soccorso con i codici del Triage, ma in un DH oncologico.
Provo a dare conforto alla signora, senza successo. Non sono un sanitario in servizio e lei non cerca empatia da me. Le urla inondano gli ambienti, ma tutti continuano a lavorare come immersi nel silenzio. Ci saranno abituati, penso.
Poi d’improvviso un attempato signore in tuta bianca le si avvicina. Le pone una mano sulla spalla e le chiede con tono pacato quale sia il problema. La signora risponde abbassando i decibel. Lui la invita a sedersi in una stanza al momento vuota, e si accomoda accanto a lei. Le parla, e ritorna la normalità in meno di 3 minuti. 180 secondi e tutto è tranquillo.
Avrei voluto filmare la scena. Sono sempre lì, in piedi, e mi raggiunge Benny, l’amico oncologo e partner dei convegni che organizziamo insieme da anni. Dobbiamo parlare di alcuni dettagli per quello di ottobre.
L’uomo attempato in tuta bianca esce dalla stanza e ci passa accanto.
La signora è ora calma e attende seduta nella stanza.
Mi ritrovo a pensare che è strano che io non l’abbia mai visto prima, nonostante sia ormai di casa.
Chi è? chiedo.
È Mario.

È un medico… un infermiere… un OSS?
È un ausiliario.
Cioè?
Un portantino in pensione. Viene ogni giorno come volontario.
Gli racconto l’accaduto con parole di ammirazione per lo sconosciuto ausiliario
Lui è così. Riesce sempre a dare attenzione alle persone e a placare gli animi mi viene risposto.
Mario non ha laurea, specializzazione, master né dottorato. Forse non ha nemmeno mai avuto un CV. Ma ha tanta umanità. Benny me lo presenta e io mi complimento con lui. Non dà importanza alle mie parole, è routine, parte del lavoro. Mi dedica meno di un minuto e continua a lavorare.
Il 25 ottobre, secondo giorno del convegno, apro la Sessione Comunicazione e racconto l’episodio. I nostri workshop sono aperti a tutti: non solo medici ma anche infermieri, pazienti, caregiver, psicologi, OSS. Mi ascoltano con attenzione e annuiscono quando dico che occorrerebbe un Mario in ogni reparto, negli ospedali, nelle ASL. Sottolineo quanto a volte un semplice gesto sia utile per creare una relazione, e quanto il contenzioso legale medico-paziente potrebbe diminuire con attitudini e comportamenti incentrati sulle persone, trattate come tali e non come malati. Questa è la vera umanizzazione delle cure.
Nelle successive e frequenti visite al DH ho sempre incontrato Mario, affaccendato in tante cose, sempre lì a risolvere problemi. Verso ora di pranzo lo trovo nella sala mensa accanto agli spogliatoi, a mangiare con gli infermieri sorseggiando del vino rossopaesano.
Il 3 giugno di quest’anno, in piena Fase 2, ricevo una telefonata da Benny: Mario non è più con noi, stroncato da un infarto.
Gli uomini ci lasciano, ma le gesta rimangono. L’amico di tutti, come lo ricordano su Facebook, sempre disponibile e indaffarato, non c’è più. Manca ai pazienti e ai sanitari, ma ogni volta che torno al DH mi sembra di vederlo lì. Una battuta, un sorriso, una trottola sempre in movimento.
Ciao Mario.

Carlo Negri, esperto di marketing farmaceutico e comunicazione in Sanità