Rossi come il sangue sono i monti e le terre della Birmania
Da tanto tanto tempo, in concomitanza con la festa del Natale, amo rivedere alcuni vecchi film.
Sono quelli che hanno contribuito, in un certo qual modo, alla mia formazione, quelli che mi hanno dato qualcosa, quelli che hanno lasciato una traccia e un segno divenuti indelebili, ad onta della patina del tempo e della tanta, tanta acqua scorsa sotto gli innumerevoli ponti della vita.
Uno di questi è L’arpa birmana, pellicola giapponese del ’56, in bianco e nero, ovviamente.
Avrò avuto sì e no dodici anni quando lo vidi per la prima volta, in televisione.
Fu mio padre a parlarmene per caso, chiedendomi di guardare il film quella sera d’estate di troppi anni fa, insieme a lui. Era – e lo ricordo bene – il giugno del ’67, il mese del Bazak, della guerra lampo arabo – israeliana dei sei giorni, entrata prepotentemente, con la forza delle cose attese ma mai certe, fino all’ultimo minuto dell’ultima ora, nelle case di un’ Italia un po’ sonnacchiosa ed ignara dei venti minacciosi che l’avrebbero squassata negli anni successivi.
L’arpa birmana, dunque: un film ambientato durante una guerra oramai trascorsa e trasmesso quella sera per esorcizzarne un’altra appena iniziata, piccola ma dalle ricadute allora potenzialmente imprevedibili.
Il film mi impressionò molto perché era la prima volte che una pellicola mi faceva entrare, adolescente e privo di malizia quale ero, in contatto con l’altra faccia della guerra, quella vera, quella cruda nel suo orrore oggettivo e dunque ben lontana dalla iconografia hollywoodiana dei film americani allora in voga.

Quella sera d’estate L’arpa birmana fece capolino dunque, inaspettatamente, nel mio cuore e vi è rimasta fino ad oggi, con la stessa forza di allora, ma con in più la consapevolezza che il tempo ed il fluire degli anni sanno donare agli uomini.
Il film attraversò numerose vicissitudini in fase di realizzazione, ma vinse alla Mostra di Venezia del ’56 il premio San Giorgio, attribuito ai film che vengono giudicati atti a stimolare con dignità artistica sentimenti ed idee utili alla civiltà. Eppure non fu una vittoria scontata, perché i sodalizi artistico – culturali della intellighenzia supponente e politicamente schierata dell’epoca (gli stessi che più o meno continuano a rappresentare anche oggi la fabbrica fatiscente del pensiero politicamente corretto), si adoperarono non poco per privilegiare un loro protetto, regista di fama e figura emblematica di intellettuale organico e schierato: una storia poco edificante.
Ma torniamo alla nostra storia, a quella che L’arpa birmana vuole raccontarci.
E’ l’estate del 1945. La guerra in Europa è finita, ma in estremo oriente continua, disperata e sanguinosa. I protagonisti del racconto sono il capitano Inouye, comandante di un reparto sopravvissuto ai combattimenti nelle giungle della Birmania, il sergente Mizushima ed i loro pochi compagni. La piccola unità è in marcia, tra mille insidie, verso il confine della Thailandia e il capitano che nella vita civile è maestro di musica e canto e il sergente Mizushima che sa suonare l’arpa e se ne costruisce una, si sforzano di mantenere alto il morale e la compattezza del reparto.
Tuttavia la guerra li insegue, spietata e crudele sino alla capitolazione del Giappone e alla loro inevitabile prigionia. E quando gli inglesi chiedono a questi uomini catturati di intervenire per persuadere ad arrendersi un altro reparto di irriducibili soldati, asserragliati in una caverna, il capitano Inouye affida la missione al fido Mizushima, ma questi non riuscirà nell’intento e il reparto che aveva rifiutato la resa nonostante la fine delle ostilità, verrà massacrato dall’artiglieria inglese, allo scadere dell’ultimatum.
Mizushima, ferito gravemente nel combattimento in cui si trova coinvolto, sopravvive miracolosamente grazie ad un monaco buddista che lo cura con amore e dedizione e, con l’esempio dei suoi gesti e del suo operato, gli mostra la Via da seguire, quella della compassione, del disinteresse nei confronti della caducità delle cose del mondo e della missione cui votarsi. Il sergente Mizushima decide così di farsi bonzo e di restare in Birmania, per dare onorata sepoltura ai corpi dei compatrioti morti che incontrerà durante il suo peregrinare in quelle terre, perché gli è stato detto che lì nessuno dà sepoltura ai cadaveri dei nemici e che questi sono destinati ad essere preda degli avvoltoi e ad imputridire nella giungla.
Mizushima non tornerà dai suoi compagni nel campo di concentramento, nonostante questi facciano di tutto per cercarlo, ma finché resteranno in Birmania, lui rimarrà in qualche modo accanto a loro, facendo sentire da lontano il suono inconfondibile della sua arpa. E certo non può essere che lui, perché quella che sentono nel vento è chiaramente la melodia di Mizushima e quei soldati sanno riconoscere le melodie e le note perché sotto la guida del capitano, che ha insegnato loro a farlo, hanno sempre cantato, durante le marce, prima dei combattimenti, per vincere la fame, la fatica e le sofferenze e ora per richiamare l’attenzione di Mizushima, costretti come sono dentro i reticolati della prigionia.
Ma Mizushima non tornerà e solo quando loro sono prossimi a lasciare il campo di concentramento per ritornare in patria, lui apparirà da lontano, in silenzio, in quanto a parlare saranno solo la voce familiare della sua arpa e le note del canto dell’addio.
Il piroscafo con i superstiti del reparto salpa per il Giappone e solo allora, inaspettatamente, in alto mare, agli uomini che oramai già parlano di tutto ciò che di bello faranno appena ritornati e che tentano, scherzando, di dimenticare ed esorcizzare i fantasmi del passato e il ricordo della giungla, solo allora il capitano Inouye aprirà e leggerà a tutti la lettera che Mizushima gli ha fatto recapitare. In essa è spiegato tutto con parole semplici e chiare: le parole di chi ha scelto di vivere per adempiere all’ultima missione, quella della Pietà, della Memoria e del Ricordo:
…perciò ho chiesto al bonzo che mi salvò la vita sul colle del triangolo di affidarmi la cura dei morti insepolti…perché le migliaia e migliaia di anime sapessero che una memoria d’amore le ricordava tutte, ad una ad una… La terra non basta a ricoprire i morti…
Ma oramai la nave fa rotta verso casa. Solo Inouye e pochi altri continuano a pensare alla scelta del sergente Mizushima. Già la sua memoria iniziava a svanire come il suono dell’arpa birmana, già si incominciava a dimenticare tutto…anche i fratelli caduti in terra birmana.
Perché questa è la vita e se questa è una storia di guerra, di sangue, di amicizia e di pietas nel senso universale del termine, è anche una storia di consapevolezza della grandezza cui può giungere l’animo umano e della parallela certezza che Memoria e Ricordo non sono patrimonio di tutti e che tutto, anche ciò che riteniamo impossibile a dimenticarsi, spesso cade nell’oblio e ogni giorno che passa anche i morti non lasciano più traccia.
Il regista de L’arpa birmana, Kon Ichikawa, ci ha lasciato, insomma, un cammeo in bianco e nero che è specchio delle nobiltà e delle miserie dell’animo umano.
Attenzione, però: non è un film pacifista nell’accezione corrente e logorata del termine.
E’ solo un invito a pensare liberamente, sgombrando la mente da schemi e sovrastrutture e facendo arrivare dritto al cuore solo le note inconfondibili… di quell’arpa birmana che si nasconde sempre tra i sentieri inesplorati della nostra umanità.

Michele Chiodi, già dirigente di istituti finanziari, collabora con periodici e associazioni culturali.