Ufficiale, avventuriero, uomo spietato, Paolo Avitabile è partito dalle file dell’esercito napoletano per arrivare ad essere Governatore di una vasta provincia del Pakistan, sulla via della seta, vivendo per 20 anni tra Persia, Pakistan, Afghanistan, con un potere assoluto diventando un personaggio da romanzo ottocentesco alla Kipling.
Nato ad Agerola nel 1791 si arruola prima agli ordini di Gioachino Murat Re di Napoli, per poi passare con i Borbone al loro ritorno: deluso per non aver ottenuto la promozione dopo un eroico comportamento in battaglia, lascia l’esercito pensando di darsi al commercio emigrando in America, ma il destino ha deciso diversamente, infatti la nave sulla quale si è imbarcato naufraga davanti Marsiglia. Qui incontra un ufficiale francese che gli propone di mettersi al servizio di uno di quei tanti Signori che in Oriente cercavano bravi militari per addestrare le loro truppe.
Avitabile partì alla ventura verso terre sconosciute e favolose e nel 1820 arrivò alla Corte dello Scià di Persia, il quale capì presto che l’uomo, imponente con il suo metro e ottanta di altezza, oltre alle capacità militari, possedeva forte personalità e spregiudicatezza. Lo Scià apprezzò tanto Avitabile che lo incaricò di mettere ordine tra le turbolente popolazioni curde che gli creavano problemi, tra cui l’evasione delle tasse. Avitabile riuscì nell’impresa, anche con metodi repressivi, guadagnando il rispetto degli stessi Curdi e la riconoscenza dello scià.
Qualche anno dopo sentì la nostalgia di Napoli e rientrò a casa nel 1824, ma la vita sonnolenta del Regno Borbonico non poteva essere paragonata al fascino dell’Oriente, per cui dopo un anno ripartì per l’India dove, preceduto dalla sua fama, prese servizio presso il Mahragià Singh, che era anche Signore del Pakistan, insofferente però alla dominazione indiana. Avitabile fu mandato lì per reprimere ogni ribellione e a ripristinare l’ordine prima nel villaggio di Wazirabad, che trasformò in città con larghe strade e un importante bazar, e poi dati i suoi meriti fu nominato Governatore della provincia a Peshawar, al confine con l’Afghanistan. Era insomma il Viceré di quel grande territorio in cui precedenti governatori o erano stati uccisi o erano fuggiti. Qui più volte si scontrò con i terribili guerrieri afghani, i Pashtun, che anche in tempi recenti hanno combattuto contro inglesi, russi e americani.

Per far capire subito che con il suo arrivo sarebbe tornato l’ordine, Avitabile fece alzare fuori le mura della città 50 pali tra la curiosità della popolazione che il giorno dopo vide 50 dei peggiori criminali della zona giustiziati con l’impalamento. Continuò nella sua repressione scuoiando vivi banditi e assassini, torturando gli evasori delle tasse, tagliando le mani ai ladri, e si dice che assistesse a queste scene mangiando e bevendo champagne. Con questi metodi impietosi riuscì a reprimere ogni ribellione e protesta e la sua crudeltà era diventata così leggendaria che le famiglie per intimorire i bambini disobbedienti dicevano: “Comportati bene altrimenti arriva Abu Tabela”. Un mostro, un orco insomma.
Abu Tabela è la distorsione del cognome Avitabile!
Governava con il pugno di ferro, al quale associava la saggezza e la bonomia napoletana verso il suo popolo, che sotto la sua guida stava in pace. Avitabile viveva alla maniera orientale in un lussuoso palazzo con giardini e fontane, aveva un harem con una sua Favorita, circondato da armati fedelissimi, in uno sfarzo da Mille e una notte, offrendo ospitalità e feste agli stranieri di passaggio. Era talmente ricco che gli Inglesi dopo la sconfitta nella Prima Guerra Afgana ricevettero da lui un prestito di un Milione di rupie, una somma enorme. Volle che la restituzione del prestito avvenisse con versamento sulle banche inglesi, in tal modo evitava di pagare le tasse in Pakistan e non avrebbe portato con sé tanto denaro quando avrebbe lasciato il Paese. Infatti qualche tempo dopo vi furono congiure di palazzo in India, e quindi decise che era più prudente andarsene. Nel 1844, dopo quasi 20 anni di vita avventurosa e di potere, ritornò a Napoli.
Gli Inglesi, grati per l’aiuto ricevuto da Avitabile, gli regalarono due bovini di razza Jersey, quando era normalmente vietato portarli fuori dall’Inghilterra. Questi, accoppiatisi con quelli locali, hanno dato origine alla razza agerolina.
Tornato a Napoli, ricco, famoso, rispettato, veniva ricevuto a corte dai Borbone e riuscì a ottenere che la sua Agerola passasse dalla provincia di Salerno a quella di Napoli con notevoli vantaggi per il suo paese. Cominciò a comprare ville, terreni, case e si fece costruire un palazzo a Castellammare di Stabia, con il panorama del golfo davanti. Lo costruì non lontano dal palazzo del Gran Mogol, soprannome dato a Catello Filosa, uno Stabiese che non si sa come, a metà del ‘700, arrivato in India fu messo dal Gran Mogol a capo di undici battaglioni di artiglieria, e che si comportò così abilmente che tornò in patria ricchissimo.
Avitabile a quasi 60 anni decise di sposarsi, e dopo la dispensa papale, sposò la nipote di 19 anni, figlia del fratello. Il matrimonio durò poco: nel 1850 morì nel suo castello di Agerola, misteriosamente intossicato. È sepolto nella chiesa di San Martino a Campora, frazione di Agerola. Sul suo monumento funebre sono incise le onorificenze ricevute: la Legion d’Onore dal Re di Francia, il Gran Cordone dei due leoni e della corona di Persia, il Gran Cordone della stella brillante del Punjab.
A poca distanza da Agerola si trova Ravello, dove nel 1789 nacque Vicente Filisola (o Filazzola), uno spirito avventuroso che lasciò presto il borgo per trovare la fama militare in Messico (anche se alcuni pensano che sia nato a Rivello, in provincia di Potenza, ma comunque sempre nel Regno di Napoli). Filisola seguì la famiglia, composta da militari, in Spagna. A 16 anni si arruolò nell’esercito e nel 1811 entrò a far parte di un corpo di spedizione in Nuova Spagna inviato per reprimere la rivolta dei Messicani, che volevano l’indipendenza dalla Madrepatria.
La Nuova Spagna in America era un territorio sterminato che partiva dal Costa Rica per salire verso nord attraverso Messico, Texas, California fino all’Oregon. Filisola riuscì ad essere promosso capitano, combattendo i ribelli, ma quando conobbe Agustín de Iturbide, uno dei capi indipendentisti, gli diventò amico e lasciò l’esercito spagnolo per abbracciare la causa indipendentista. Alla guida di 4000 uomini entrò in Città del Messico liberandola dal dominio spagnolo. De Iturbide, intanto, si autoproclamò Imperatore del Messico e nominò, a 33 anni, Filisola Governatore dello Stato del Guatemala (che comprendeva anche Honduras, Nicaragua, Costa Rica, El Salvador) per convincerli a far parte dell’impero messicano: El Salvador si ribellò e lui represse la rivolta. Dopo un anno De Iturbide venne fucilato. Nacque la Repubblica e Filisola diventò Generale. Più tardi il Governo gli concesse grandi territori in Texas, affinché con 600 coloni non anglo-americani, vi sviluppasse un’economia espansiva utile a intensificare la produttività di quelle terre, ma i Pellerossa che abitavano in quelle praterie resero difficile la vita agli agricoltori, per cui Filisola rinunciò all’impresa e restituì i territori al governo.
Certamente godeva di grande stima per le sue doti militari, tanto che il Presidente-Dittatore del Messico, il generale Santana, lo nominò suo braccio destro nella campagna contro i rivoltosi del Texas che volevano essere indipendenti dal Messico. Santana si diresse contro i ribelli e li annientò nella famosa battaglia di Alamo, in cui morì Davy Crockett. Non si fecero prigionieri, tutti uccisi nello scontro o fucilati successivamente. Filisola non partecipò alla battaglia perché responsabile nelle retrovie dell’assistenza logistica. Continuò a prestare servizio anche in una delle guerre tra Messico e Stati Uniti, ma nel 1850 morì a Città del Messico a causa del colera.
A un paio d’ore da Ravello, in provincia di Salerno, si trova Sala Consilina dove nacque nel 1851 Giovanni Martini, un trovatello che diventò il trombettiere del VII Cavalleria comandato dal Generale Custer.
Giovanni era stato abbandonato alla ruota degli innocenti e il sindaco gli dette il cognome Martini. A 15 anni si arruolò con Garibaldi, combattendo nella III Guerra d’Indipendenza, per poi migrare negli Stati Uniti, dove si scontrò con la dura realtà degli emigranti. Forte della sua esperienza militare non trovò di meglio che entrare nell’esercito americano. Fu assegnato al VII Cavalleria e cambiò nome in John Martin. Custer prese in simpatia il giovane soldato e si racconta che gli abbia chiesto “Di dove sei?”. “Di Napoli” – rispose, e Custer “Allora sai suonare”. Gli dette una tromba, nominandolo trombettiere dei suo reggimento. Seguì il generale nelle battaglie contro gli Indiani ed era con lui a Little Bighorn, in Montana, una delle più famose battaglie della storia del West, quando Custer si scontrò con le tribù di Toro Seduto e Cavallo Pazzo nel 1876.

Appena Custer si accorse di non poter affrontare con poco più di 200 uomini le migliaia di Indiani, chiamò John, ma temendo che non conoscesse bene l’inglese gli consegnò un messaggio con il quale chiedeva rinforzi ai suoi Ufficiali sparsi più indietro sul terreno. John montò a cavallo, ma gli Indiani lo videro allontanarsi e lo inseguirono lanciandogli frecce. John Martin riuscì a consegnare il messaggio, ma il reggimento era impegnato in altri scontri con gli Indiani. La battaglia di Little Bighorn tra Indiani e Custer durò poco: Custer e i suoi 200 soldati furono sterminati. John Martin, il trombettiere , fu l’unico sopravvissuto di quello squadrone e per anni fu intervistato dai giornalisti ai quali raccontava la storia di quella battaglia. Congedatosi dall’esercito fece il bigliettaio sulla metropolitana di New York e morì nel 1920, lui unico sopravvissuto al massacro di Little Bighorn, investito da un camion di birra!
Nel VII Cavalleria di Custer c’erano anche altri Italiani, tra i quali il Conte Carlo Di Rudio. Questo Conte è un altro personaggio da romanzo che sarebbe piaciuto a Dumas e come tutti gli eroi dei romanzi era veramente fortunato.
Nato a Belluno nel 1832 ai tempi del governo asburgico partecipa alle Cinque Giornate di Milano, dalla parte austriaca, ma subito dopo condivide le idee di Mazzini e corre a difendere giovanissimo Venezia dagli Austriaci e nel 1849 la Repubblica Romana con Garibaldi, Mameli, Bixio, combattendo i Francesi che volevano restituire lo Stato Pontificio a Papa Pio IX che era fuggito a Gaeta nel Regno di Napoli. Caduta la Repubblica fugge per l’Europa inseguito dalla polizia austriaca e sposa in Inghilterra una fanciulla di 15 anni.
Quando incontra il rivoluzionario Felice Orsini, che accusava Napoleone III di aver impedito l’Unità d’Italia, decide di compiere con altri compagni un attentato alla vita dell’Imperatore. Gli attentatori sono 4 e gettano le bombe contro la carrozza di Napoleone III che si stava recando all’opera per assistere al Guglielmo Tell di Rossini. L’imperatore resta illeso perché la carrozza è blindata, mentre muoiono una decina di parigini e un centinaio restano feriti. Di Rudio viene catturato poco dopo e condannato a morte: ormai è davanti alla ghigliottina, sta fumando l’ultima pipa, quando come nei romanzi d’avventura arriva di corsa un messaggero che porta una lettera di Napoleone III che gli commuta la pena di morte in una condanna all’ergastolo da scontare sull’isola del Diavolo, alla Cayenna in Sudamerica, l’Inferno dei vivi.

Lì il clima è terribile, le condizioni igieniche inesistenti, il cibo avariato per il calore e l’umidità, per cui Di Rudio cerca subito di evadere. La prima volta scava il tronco di un albero per farne una barca, ma scoppia nella colonia penale un’epidemia di febbre gialla e su 600 presenti ne sopravvivono 63 tra cui il Conte, costretto perciò a rinviare la fuga. Dopo un anno dal suo arrivo riesce a procurarsi dei viveri e ruba con un altro compagno una barca a dei pescatori e sfida l’oceano. Navigando a vela, al limite della resistenza, dopo quasi mille miglia arriva nelle Guyana britannica. L’evasione di un personaggio così noto fa notizia, per cui i Francesi vogliono che Di Rudio, l’attentatore, sia loro restituito: gli Inglesi fanno circolare la falsa voce della sua morte, avvenuta mentre cercava l’oro all’interno della Guyana, ma invece lo imbarcano segretamente per l’Inghilterra. Raggiunge la moglie, ma ha grosse difficoltà economiche, per cui Mazzini gli consiglia di andare negli Stati Uniti, forse per liberarsi di un personaggio scomodo, e gli fornisce lettere di presentazione per i suoi amici repubblicani.
Arrivato negli Stati Uniti si arruola nell’esercito ai tempi della Guerra di Secessione, e dopo viene assegnato al VII Cavalleria comandato dal generale Custer. Il Generale,vanitoso, non ha simpatia per questo ufficiale elegante, di bel portamento, signorile, molto amato dai suoi soldati ai quali racconta tante storie della sua vita avventurosa e pericolosa. Sarà questa “invidia” a salvare il Conte (era chiamato “il Conte che non conta”) dal massacro di Little Bighorn: infatti era vacante un posto di Ufficiale, che spettava a lui, nello squadrone di Custer, ma questi gli preferì un altro Ufficiale. Il Conte viene assegnato a un’altra compagnia che si scontra violentemente con gli Indiani, ci sono diversi morti, ma Di Rudio dopo aver ucciso due nemici che avevano indossato le giacche blu di soldati morti per ingannarlo, si nasconde per due giorni in un boschetto fin quando gli Indiani lasciano il territorio e ancora una volta sfugge alla morte. Continuerà a combattere gli Indiani, proteggendo i coloni nella conquista del West nelle grandi praterie. Si ritirerà nel 1894 in California e morirà nel 1910 a Pasadena assistito dalla moglie e dalle tre figlie cui ha dato nome Roma, Italia, America.

Sergio Giaquinto, Giurista, già Dirigente Amministrativo dell’A.O. dei Colli, cultore di Storia e Archeologia