Seconda parte: il colera
Dopo aver raccontato della peste, esaminiamo ora il secondo morbo che flagellò Napoli
Prima epidemia del morbo nel Regno delle Due Sicilie, questa malattia, endemica nei paesi asiatici, si è diffusa a seguito di quella che oggi chiameremmo globalizzazione.
L’aumento degli scambi commerciali con l’Oriente favorì il contagio in Europa; i traffici marittimi erano aumentati per la richiesta di prodotti esotici, di legnami, di spezie ecc. e sui mercantili salì come ospite indesiderato e occulto anche il colera.
Nel 1836 ebbe origine nello Stato Pontificio, in Ancona, per poi scendere lungo l’Adriatico sino in Puglia, che era parte del Regno delle Due Sicilie (stranamente quando pensiamo al Regno borbonico, non poniamo attenzione all’enormità del suo territorio: si andava da Civitella del Tronto, confine con le Marche, a Santa Maria di Leuca, dalle Tremiti fino a Pantelleria).

L’esplosione del colera a Napoli fu dovuta sempre a quella mancanza di igiene che ciclicamente colpiva senza appello la città, che aveva problemi di sovraffollamento nei suoi spazi rispetto al numero della popolazione stanziale; era tutta chiusa all’interno delle mura cittadine delimitata da nove Porte monumentali che consentivano l’accesso alla città per proteggere gli abitanti da eventuali attacchi invasori: Porta Capuana, Porta Nolana, Porta San Gennaro, Port’Alba, Porta di Costantinopoli, Porta Carbonara, Porta del Carmine, Porta Medina, Porta dello Spirito Santo. Delle nove Porte, solo le prime quattro sono ancora presenti, mentre le altre furono demolite o spostate nell’arco del tempo.
Il popolo viveva in bassi, abitazioni senza acqua, fra insetti e sudiciume, analfabeti, lazzaroni, in quello che era definito il Paradiso abitato da diavoli.
Napoli era servita da due acquedotti: quello della Bolla e quello del Carmignano. Il primo nasceva nel territorio di Somma a Volla, il secondo a Sant’Agata dei Goti.
Il principe di Carmignano costruì, a sue spese, l’acquedotto nel 1629 per vendere l’acqua ai contadini, ai casali e ai mulini che si trovavano lungo il percorso che attraversava Maddaloni, Acerra e Casalnuovo per arrivare a Napoli, dove poi si divideva in altri rami e canali, ma qui l’acqua era venduta dalla Città.
La Bolla serviva i quartieri bassi, Mercato, Porto, Pendino ecc., mentre il Carmignano serviva le zone alte come l’Orto botanico, i Quartieri spagnoli, Pizzofalcone, per unirsi con la Bolla all’altezza della Villa comunale.
I casali del Vomero, Arenella, Posillipo potevano approvvigionarsi d’acqua scendendo in città o facendosela trasportare con carri o con gli asini in collina, pur avendo l’Arenella acque che la attraversavano e il cui canto delle lavandaie (più noto come del Vomero) iesce sole è il primo canto napoletano.
Il colera arrivò a Napoli il 2 ottobre: l’acqua inquinata lungo il percorso a cielo aperto dai liquami che vi versavano i contadini, le carogne di animali, i pozzi neri che raccoglievano materiale putrido, provocarono l’aggravamento dell’epidemia.
Secondo alcuni una delle cause fu la porosità del tufo; l’acquedotto del Carmignano passava sotto la collina di Santa Maria del Pianto (‘O Trecco) dove si trovavano cappelle gentilizie e cavità nelle quali erano stati sepolti i morti di precedenti epidemie per cui era possibile che la putrefazione dei cadaveri era passata attraverso il poroso tufo ed i liquidi erano penetrati nell’acquedotto.
Ferdinando IV girava per i rioni a portare conforto, controllava i pozzi, e finanziò interventi grazie al Tesoro reale; molti privati intervennero a loro volta; il chirurgo reale rinunciò a un anno di stipendio e alcuni farmacisti dispensavano medicinali gratuitamente.
Per evitare che le fanciulle orfane finissero su una cattiva strada l’Arcivescovo aprì ostelli per ospitarle.
Il morbo finì prima dell’inverno per tornare agli inizi di aprile dell’anno successivo.
Intanto il colera si diffondeva nel Regno e colpì Palermo. Qui per motivi politici, gli oppositori del Governo (massoni e liberali), sparsero la voce che la reggenza aveva avvelenato i pozzi per far morire i Siciliani; questi, sempre pronti storicamente ad affermare la propria autonomia, si ribellarono e il re dovette mandare un esercito per reprimere la sedizione. (Sono più di 50 anni che cerco di capire perché si chiama Regno delle Due Sicilie, ma nonostante abbia letto molto, non ho mai trovato una risposta convincente).
Morirono meno di 20.000 persone a Napoli (a Palermo più del 13% della popolazione) e fra questi in una città aperta alla cultura, dove era attiva con i suoi artisti la Scuola di Posillipo e Donizetti da più di 15 anni componeva la sua musica e la sua opera più famosa, la Lucia di Lammermoor, (l’amata moglie morì qui di colera), e morì anche Leopardi nel 1837.
Chi conosceva questo marchese che si dilettava a scrivere poesie? Credo non se ne accorse nessuno, tanto è vero che non si sa dove sia sepolto. I morti furono seppelliti nel cimitero dei colerosi, vicino a quello delle 366 fosse, e al camposanto delle Fontanelle.
Il colera ritornerà nel 1854, nel 1865, nel 1873 per poi esplodere in maniera violenta nel 1884, ma di quest’ultima epidemia ne riparleremo.
Un’ultima osservazione: dopo ogni epidemia, in tutti i tempi, quando intere famiglie sono state distrutte, per cui non esistevano più eredi e nessuno aveva fatto testamento si accendevano lotte per impossessarsi di beni e proprietà dei defunti. I proprietari terrieri infatti hanno allargato indebitamente i confini occupando le zone limitrofe e alla spoliazione di palazzi. Quando nel 62 d.C., prima dell’eruzione del 79 d.C., a Pompei ci fu il terremoto che distrusse molti edifici, l’imperatore Nerone mandò il prefetto Tito Suedio Clemente nella cittadina per rifare il catasto, al fine di impedire appropriazioni indebite. Questi erano Amministratori.
Il colera del 1973 e il Mitile Ignoto
Ancora oggi ci portiamo addosso sui campi di calcio l’epiteto di Napoletani colerosi, perché nell’estate del 1973 scoppiò in città una nuova epidemia di colera, anche se il vibrione (che in latino vuol dire virgola per la forma), colpì mietendo vittime in Puglia, con un maggior numero di casi, e in Sardegna.
L’epidemia coprì un arco di tempo che va dal 20 agosto al12 ottobre 1973; cominciò soft con un paio di casi ma poi, tra il 26 e 27 agosto, i numeri aumentarono. L’allarme fu dato dal primario dell’ospedale Maresca di Torre del Greco, dottor Brancaccio, il quale attribuì al colera la causa di diverse morti e gastroenteriti che si stavano verificando nell’area torrese e chiese il trasferimento al Cotugno, ospedale napoletano per le malattie infettive, dei malati.
L’allora Direttore del Cotugno, l’onorevole Ferruccio De Lorenzo, figura potentissima della Sanità campana, gridò allo scandalismo. Le voci furono confermate il 28 agosto, giorno in cui furono constatati sette decessi, cinque a Torre del Greco e due a Napoli, e oltre cinquanta ricoverati.
Ricordo che il giorno dopo andai a vedere la partita Napoli-Reggiana di Coppa Italia, (1-1), sotto quello che allora si chiamava temporale e non ancora bomba d’acqua, e pensai che tutto quel diluvio spazzasse via il morbo, anche perché non si sapeva quale fosse la sua origine.

Ad un certo punto accusarono le cozze, furono rimossi i filari di mitili che erano coltivati nel Golfo, ed esaminate a campione, risultando piene di colibatteri (morì pure il vibrione perciò non lo trovarono!). La distruzione dei frutti di mari portò alla ribellione dei pescatori, che traevano guadagno dalle coltivazioni; questi provocarono incidenti e, sfidando le Autorità, mangiarono le cozze crude per dimostrarne l’innocenza.
La paura del contagio colpì anche le verdure, che venivano lavate con l’amuchina; diminuì il consumo pesce, perché considerato vicino di casa delle cozze, e di fichi, perché, data la dolcezza, vi si posavano sopra le mosche, altro veicolo di infezione.

Per precauzione venne chiusa anche la fontana di acqua ferrata del Chiatamone. Limpida e frizzante, acidula, faceva bene ai reni e all’intestino; gli acquafrescai, venditori ambulanti di acqua, riempivano le mummarelle, anfore di terracotta perché rimanesse fresca.
La famosa fontana oggi non è più accessibile, perché è stata inglobata nell’hotel Continental.
Il prezzo dei limoni, da sempre considerati disinfettanti, spremuti tradizionalmente sulle cozze, arrivò alle stelle.
Pare che il colera fosse dovuto a partite di cozze tunisine importate ove in quel periodo c’era il colera; cozze che vendute anche a Barcellona portarono in Spagna il colera dove rimase 2 anni.
Il panico cresceva e il tam-tam popolare insinuava che veniva nascosto il reale numero dei morti; si accorsero che la città era sporca, piena di rifiuti e il mare inquinato. Così iniziarono a innaffiare le strade di creolina e a proibire i bagni di mare, raccomandando di lavarsi spesso le mani!
I ricoverati al Cotugno erano ormai circa 200 e i parenti si accalcavano fuori l’ospedale per avere notizie, ma l’accesso era inibito; i medici comunicavano il bollettino dello stato di salute dei pazienti con il megafono.
Gli Americani, però, salvarono Napoli. I militari della Sesta flotta intervennero con le scorte che avevano accumulato per i soldati che avevano combattuto in Vietnam, iniettando con le pistole il vaccino anti vibrione.
La popolazione si mise in fila, disciplinatamente, per ore ad aspettare il proprio turno, senza protestare, perché Napoli, quando sa di dover fare la cosa giusta, rispetta le regole ed è ancora più inglese dei Londinesi.
Alla fine qualcuno propose un monumento al Mitile ignoto. A Napoli ci furono 15 morti. L’O.M.S. dichiarò finita l’epidemia ad ottobre e così ricominciammo a mangiare cozze nelle retine con l’indicazione della zona di produzione e la sicurezza sanitaria.

Sergio Giaquinto, Giurista, già Dirigente Amministrativo dell’A.O. dei Colli, cultore di Storia e Archeologia