Prima parte: la peste
Sergio Giaquinto, cultore della storia partenopea, ci accompagna in un viaggio a Napoli ai tempi della peste e del colera
La peste ha flagellato i popoli sin dai tempi più antichi.

Il primo narratore storico fu Tucidide, che descrisse la peste di Atene del V secolo a.C. nella Guerra del Peloponneso a seguito della quale morì Pericle.
Un’altra epidemia colpì nel 500 d.C. l’Impero bizantino al tempo di Giustiniano.
La peste del 1348
In Italia, la più famosa è datata 1348, descritta nel Decamerone da Boccaccio, virulenza che ebbe origine a Venezia, causata da una nave proveniente dalla Crimea che diffuse il contagio.
In questa regione si trovava il porto di Caffa, dove mercanteggiavano navi veneziane e genovesi, assediata dai Tartari. Questi per disseminare malattie catapultarono i cadaveri dei loro morti in città: più tardi una nave veneziana salpò per la città euganea portando a bordo topi che, arrivati nella Serenissima, scatenarono l’epidemia.
Secondo gli Arabi la peste era collegata all’astrologia e giungeva quando la posizione degli astri maggiori era nefasta, mentre per la Scuola Medica Salernitana, la più importante istituzione medica europea nel Medioevo (IX secolo), era una malattia dell’aria e si trasmetteva tramite il respiro; si è colpiti dal morbo solo quando gli umori del corpo umano sono in subbuglio.
La peste nera nel 1348 invase l’Italia e anche la Napoli angioina ne fu colpita: chi poteva, perché aveva parenti o proprietà in campagna, scappò e in città rimasero i malati, gli indigenti, chi non poteva fuggire. Nel 1382 la peste ritorna e morirono 7000 abitanti su 40000 e ancora nel 1399 quando i morti furono 16000.
La terapia alimentare
Si credeva che la malattia fosse un male legato alla putridume e all’umidità e si consigliava di mangiare cibi, meglio se fritti, con molto sale per le qualità conservanti e con il limone per le qualità astringenti e rinfrescanti.
Nel 1300 prevalevano i consigli del medico fiorentino Tommaso Del Garbo, che raccomandava cibi asciutti, uova e pesce, e sconsigliava formaggi, frutta, radici e legumi.
Altri pensavano che fosse utile il riscaldamento della casa con il fuoco a legna, il calore del sole attraverso le finestre, lavarsi bene le mani con l’acqua rosata, l’aceto, e il mangiar bene.
Bisognava evitare di non mangiare, di affaticarsi, mangiare frutta, astenersi dal sesso e dal respiro ravvicinato (le 5 F: fames, fatica, fructus, femina, flatus), mentre per la terapia si consigliavano altre 5 F (flebotomia, focus, fricativo, fuga e flexus) cioè salasso, fuoco, strofinio, fuga e clistere.
La peste era bubbonica e polmonare e il protettore degli appestati è San Rocco, colpito dal bubbone sulla coscia, al quale il cane portava da mangiare, come rappresentato in numerose statue.
Le epidemie di metà ‘400 nella città di Partenope
A Napoli la peste ritorna prima nel 1448 e poi nel 1464, anno in cui furono scelti i Deputati di Governo, funzionari amministrativi, incaricati dell’organizzazione (una protezione civile ante litteram), che provvedeva a isolare le case dei malati, a procurarsi danaro per le necessità, a scegliere medici e collaboratori anche se poi tendeva ad aiutare i Potenti del tempo.
Durante questa epidemia tutte le Istituzioni, compresi i Reali, lasciarono Napoli e governarono da altre cittadine meno colpite dalla peste. Furono create le Bollette della Sanità, certificati sanitari che dovevano dimostrare la buona salute di chi era autorizzato a passare la dogana per entrare in città o nel Regno.
Nel 1468 il cardinale Carafa adibisce il convento di San Gennaro fuori le mura (attuale ospedale San Gennaro dei poveri) a Lazzaretto: ospiterà i malati delle successive epidemie del 1479 e del 1493, che fece 20000 morti, e quelli del 1499.
La peste napoletana del 1656
Durante il 1500 ogni tanto si verificarono epidemie di peste, ma la più terribile, la più famosa, è quella del 1656, anche perché è stata rappresentata in numerose opere pittoriche dagli artisti dell’epoca L’epidemia si innesta su un tessuto sociale fragile, degradato, con fogne a cielo aperto e in una città sovraffollata, oltre 400.000 abitanti, anche per l’immigrazione dal contado di gente che cercava fortuna dopo l’eruzione del Vesuvio del 1631.

L’evento vulcanico fu una novità sconvolgente, erano secoli che la montagna dormiva e la sua potenza devastatrice era non solo dimenticata, ma addirittura sconosciuta.
L’immagine del panorama di Napoli da ora in poi subisce una rotazione: fin ad allora i quadri avevano rappresentato una Napoli vista dalla zona del Carmine, e sullo sfondo San Martino, Castel dell’Ovo, Posillipo. Da allora in poi si cambia, protagonista della pittura sarà il Vesuvio.
Pochi anni dopo il popolo affamato, messo allo stremo per le tasse, nel 1647 si ribella e nasce la rivolta di Masaniello.
Le disgrazie non vengono mai sole e il passaggio della cometa (vista dall’astronomo Cassini) viene considerato come sempre infausto presagio: tre anni dopo arriva la peste.
La portano gli Spagnoli provenienti dalla Sardegna. Uno di questi soldati fu ricoverato all’ospedale della Annunziata dove gli venne diagnosticata la peste dal medico Domenico Bozzuto. Quest’ultimo dette subito l’allarme, ma fu messo a tacere e imprigionato su ordine del Vicerè, perché diffondeva notizie false.
Intanto il soldato morì e con lui tutti quanti gli erano stati vicino, compreso il dottor Bozzuto (questa storia ti ricorda qualcuno?), ma i colleghi medici non vollero informare le Autorità, temendone la reazione, e nessuno si preoccupò di bruciare le cose appartenute agli appestati, provocando così la diffusione dell’epidemia.
La gente pregava, si facevano processioni che aggravavano la situazione, si lasciavano beni alla Chiesa: molti preti eroici si avvicinavano ai moribondi, ma altri fuggivano insieme alla popolazione fuori città, seminando il morbo nel resto del Regno.
Qualcuno,invece, cercò di entrare a Napoli forzando il blocco sanitario imposto dal Vicerè, che prevedeva pesanti sanzioni: era un pittore fuggito da Roma, detto il Calabrese, per aver ucciso, dopo una discussione, un critico d’arte che aveva criticato i suoi affreschi.
Quando le guardie gli si pararono davanti per impedire il suo accesso, ne uccise una e ne ferì un’altra e poi fuggì via; fu inseguito, catturato e infine condannato a morte. Il Calabrese si rivolse a un Tribunale di grado superiore, il quale,conoscendo la bravura del pittore, gli offrì, in cambio della grazia, di affrescare gratuitamente i nicchioni di tutte le Porte di Napoli: il pittore, ovviamente, accettò: il suo nome era Mattia Preti. L’unico affresco ancora visibile è quello di Porta san Gennaro a Foria.
I morti dell’epidemia del 1656 furono 250.000 su poco più di 400.000 abitanti: i loro cadaveri furono gettati in fosse comuni nella chiesa del Carmine, ma l’enorme numero di cadaveri fu trasportato nelle cavità sotto l’attuale cimitero di Santa Maria del Pianto a Poggioreale e a quello delle Fontanelle. Questo morbo è sicuramente quello che è rimasto di più nella memoria di popoli per la sua devastante mortalità, tanto è vero che nella lingua comune è rimasto il modo di dire”sei una peste” e non, ad esempio, sei una lebbra o un colera.

Sergio Giaquinto, Giurista, già Dirigente Amministrativo dell’A.O. dei Colli, cultore di Storia e Archeologia