Vivere è soffrire,
per sopravvivere
bisogna trovare un significato
nella sofferenza
Friedrich Nietzsche
Il dolore scopre all’uomo la nuda brutalità di ẞίἀ.
Può presentarsi come Algos, il figlio di Eris – dea oscura primordiale e irrazionale -, e lì dove irrompe, il dolore vela il senso dell’esistenza in un opprimente mistero in cui l’uomo non smette di ricercare una salienza, un significato.
Come il centauro Chirone, si può arrivare a voler barattare la propria immortalità pur di sottrarsi alle indicibili sofferenze e alla cupa disperazione che scaturiscono da un dolore incurabile e fatale anche se non mortale.
Presso gli apollinei e dionisiaci greci, accanto ad Algos – dio del dolore fisico -, c’era Pathos: una delle due forze regolatrici dell’animo umano.
Già Eschilo ci aveva suggerito il <<pàthei màthos>>: che soffrendo s’impara.
Si può imparare dal dolore e si possono cercare soluzioni alla sofferenza, affidandosi a quell’altra forza regolatrice dell’animo umano: Logos.
Logos è la Ragione, che nella delicata alchimia della scienza, ha distillato, in millenni di pratica e ricerca, la Medicina moderna.
Chi è il vero dio della forma? Il misurato Apollo o il cangiante Proteo?
E da chi dei due prende la sua forma il dolore?
Da quello dell’equilibrio o piuttosto da quello che rompe e destabilizza ogni equilibrio?
Per Dino Buzzati <<ogni dolore viene scritto su lastre di una sostanza misteriosa al paragone del quale il granito è burro.
E non basta un’eternità a cancellarlo>>
La forma ‘nomologicamente’ più scolpita e definita di dolore ci è stata fornita dalla Medicina.
Infatti, in ambito medico, il dolore è stato definito nel 1979 dalla IASP (International Association for the Study of Pain) come <<un’esperienza sensitiva ed emotiva spiacevole, associata ad un effettivo o potenziale danno tissutale o comunque descritta in rapporto a tale danno>>.
Nel 2018, dopo quasi 4 decenni, la IASP ha incaricato una task force per la revisione di questa definizione clinica, col fine di raggiungere una descrizione che consentisse una migliore comprensione dell’esperienza dolorosa individuale.
La revisione ha portato a questa nuova definizione:
<<il dolore è una spiacevole esperienza sensoriale ed emozionale associata a, o che assomiglia a quella associata a, un danno tissutale attuale o potenziale>>.
Nel 2020, la definizione rivista, insieme alle note di accompagnamento, sono state accettate all’unanimità dall’IASP Council.
Le note di accompagnamento recitano: il dolore è sempre un’esperienza personale che può essere influenzata a vari livelli da fattori biologici, psicologici e sociali; il dolore e la nocicezione sono due fenomeni differenti (la presenza di dolore non può essere dedotta solamente dall’attività nei neuroni sensoriali); gli individui imparano il concetto di dolore attraverso le loro esperienze di vita; il resoconto di un’esperienza di dolore dovrebbe essere rispettato; sebbene il dolore abbia solitamente un ruolo adattivo, esso può avere effetti avversi sul funzionamento e sul benessere psicosociale dell’individuo; la descrizione verbale è solo uno dei tanti comportamenti usati per l’espressione del dolore (l’incapacità di comunicare non nega la possibilità che un essere umano o un animale esperisca dolore).
Nell’ambito del dolore, la Medicina è in primo piano perché da sempre cerca rimedi contro di esso.
Dirò di più: visto lo sforzo continuo e incessante che la catena millenaria della comunità umana ha profuso per combattere il dolore, non è azzardato affermare che molti dei progressi che l’Uomo ha fatto nel campo della Medicina, siano stati sospinti dalla volontà – anzi dal bisogno – di lottare contro il dolore.
Diceva Pietro Verri (da Discorso sull’indole del piacere e del dolore): <<il dolore precede ogni piacere ed è il principio motore dell’uomo>>.
In tale ottica, se l’uomo non avesse avuto questo tallone di Achille, insieme alla odisseica sete di conoscenza e scoperta, non avrebbe neppure avuto quella spinta evolutiva così tanto mirabilmente investita nell’arte e nella scienza medica.
Abbiamo letteralmente scritta fin dentro in nostro DNA l’epopea di una millenaria lotta che ci spinge a combattere e contrastare sia quello che è possiamo definire il dolore proprio (quello esperito personalmente) sia quello che invece si esprime attraverso i fenomeni dell’empatia, simpatia e compassione (quello esperito dai propri cari e dai propri simili più o meno vicini, e che attraverso il sistema dei neuroni specchio esperiamo anche noi nella nostra mente incarnata o embodied mind).
Perché non è sempre vero che, come cantava Fabrizio de André, << e per tutti il dolore degli altri │è dolore a metà>>: talvolta il dolore degli altri è un dolore che dentro di noi si raddoppia a ogni pie’ sospinto come in una spirale di Fibonacci…
E allora, perché no? Succede anche che – sulle orme preziose di Pitagora -, per gli animi più sensibili, anche la volontà di lottare contro il dolore manifestato da altri esseri viventi, più distanti lungo la catena delle specie, possa diventare una lotta degna e onorevole da combattere.
In definitiva, insieme alla morte (che pure porta in sé un carico infinito di dolore empatico che si esprime nel lutto), il dolore dovrebbe essere annoverato tra le maggiori spinte evolutive della razza umana: per contrastare dolore e morte l’Uomo si spinge sui crinali più arditi della conoscenza e delle arti di plasmare il mondo a immagine e somiglianza dei propri desideri e bisogni.
Il dolore e la morte plasmano la volontà umana di dare una forma al Mondo che più si adegui alle necessità dell’uomo.
La scoperta dell’anestesia ha dischiuso i campi agli orizzonti vasti della chirurgia.
La scoperta dell’oppio ha consentito di ‘addomesticare’ una creatura vegetale altrimenti croce dell’umanità, che nella propria semantica racchiude tutto il senso della parola ‘Pharmakon’: veleno e rimedio.
Ed è stato nel corso di questo lungo e onorevole percorso che la Medicina si è arrogata il diritto/privilegio di definire il dolore.
Eppure, il campo semantico della parola ‘dolore’ è ben più vasto di quello definito dalla Medicina.
Basti semplicemente pensare ad alcuni di quei termini che utilizziamo come sinonimi o come contrati di ‘dolore’.
Tra i primi, incontriamo: ‘male’, ‘sofferenza’, ‘dispiacere’, ‘angoscia’, ‘disperazione’, ‘tristezza’, ‘desolazione’, ‘tormento’, ‘tortura’, ‘supplizio’, ‘contrizione’; e così via…
Tra i secondi, incontriamo: ‘piacere’, ‘felicità’, ‘allegria’, ‘godimento’, ‘spensieratezza’, ‘letizia’, ‘consolazione’, ‘gioia’, ‘felicità’, ‘gaudio’; e così via…
Se per il concetto di ‘dolore’ utilizzassimo il quadrato semiotico di Greimas, avremmo uno schema come quello che segue:
i contrari ‘dolore:piacere’; i contraddittori ‘dolore:non dolore’ e ‘piacere:non-piacere’; i subcontrari con zone di intersezione ‘non-dolore:non-piacere’; i complementari con relazione di implicazione ‘dolore:non-piacere’ e ‘piacere:non-dolore’.
E da questo quadrato semiotico possiamo anche tirare fuori dei metaprodotti come ‘dolore-e-piacere’ e ‘né-dolore-né-piacere’.
Ciò significa che la matrice concettuale e il campo semiotico del dolore sono ben più complessi di quanto non si possa immaginare.
Parafrasando ciò che Sant’Agostino diceva del tempo, potremmo dire che <<il dolore, se non mi chiedono cosa sia, lo so; ma se me lo chiedono, non lo so più>>.
È un concetto talmente fondante e primo da assurgere ad espressione apodittica ed evidente di per sé di uno stato delle cose che riguarda un vissuto di sofferenza;
ogni definizione di ‘dolore’ diviene una tautologia…
Diceva Joni Mitchell: <<il dolore è così facile da esprimere, eppure così difficile da raccontare>>.
Nella propria storia millenaria, la Medicina ha accolto il male fisico e quello psichico, cercando di offrire risposte con i rimedi suoi più propri che attengono al campo dell’algologia, della neuro-psichiatria e della psicologia. In tempi più recenti si sono aggiunte le Neuroscienze, che hanno apportato contributi straordinari su paradigmi di tipo scientifico.
Eppure, non possiamo pretendere che il discorso (nel senso di logos) sul dolore si esaurisca in ambito medico.
… e non possiamo pretendere che il suo campo semantico non venga contaminato e fertilizzato dalla narrazione investita della sacralità propria del mythos…
Il discorso multidimensionale sul dolore non può prescindere da tanti altri campi di interesse umano, che spaziano dalla antropologia alla filosofia, dalla morale alla religione (dove basti pensare alla complessità infinita della Teodicea), dall’etica alla bioetica, dalla poesia all’arte in generale.

In primis sono la filosofia e l’arte a rivendicare il proprio giusto diritto di parlare di dolore.
Epicuro affermava che «è vano il discorso di quel filosofo che non curi qualche male dell’animo umano».
Spesso la filosofia (vedi per esempio proprio l’Epicureismo), così come alcune religioni o strade dello spirito (vedi per esempio il Buddismo) hanno identificato la felicità nella liberazione dal dolore (in quale punto del nostro quadrato semiotico metteremmo questa posizione?); e filosofi/poeti come Lucrezio hanno visto nella filosofia la via d’accesso alla felicità, dove per felicità hanno inteso l’atarassia e cioè la liberazione dalle paure e dai turbamenti (dove metteremmo questa specie di anestesia dello spirito o dell’animo, sul nostro quadrato semiotico?).
Anche per i filosofi dello Stoicismo, quali Seneca e Epitteto, il dolore – derivando da un nostro atteggiamento di fronte a cose che non dipendono da noi -, richiedeva un impegno imperativo consistente nella sopportazione attraverso un atteggiamento dello spirito chiamato apatia.
La religione cristiana e la filosofia che cerca le risposte sul senso dell’esistere sulla base della rivelazione del cristianesimo ha fatto acquisire un significato nuovo al dolore: non è più solo un male fisico e morale (legato ai concetti di libertà umana, peccato e disobbedienza al volere divino), ma è anche una via privilegiata di purificazione….
È solo sulla scorta di queste premesse escatologiche che si possono comprendere manifestazioni umane in cui non c’è solo la mera sopportazione del dolore ma sua totale accettazione; addirittura, è ampiamente documentata la ricerca del dolore come mezzo di espiazione e di elevazione, partendo dagli esempi di Sant’Agostino e San Tommaso.
È solo da queste premesse che un poeta come Alessandro Manzoni, dopo la propria conversione religiosa, può giungere a credere nella “provvida sventura” ossia nella presenza del divino nel segno del dolore e della sofferenza; un Dio che ancora una volta, come già fece col povero (miserabile direbbe Victor Hugo) Giobbe, mette alla prova le sue creature (ma non le abbandona!?)
L’uomo, disperato nel dolore e invischiato nell’insolubile labirinto della teodicea, cerca nel dolore stesso il segno dell’amore divino che redime e santifica la vita di chi sappia sopportare le sofferenze con obbedienza e fede ad una volontà superiore.
Ma l’uomo non è tessuto nella propria trama e ordito di rassegnazione!
Con il secolo dei lumi e la nascita del pensiero moderno, l’uomo si riappropria di quel formidabile concetto stoico-paneziano dell’homo faber fortunae suae; così, desacralizza il dolore e lo prende di mira in un senso moderno: come realtà fenomenologica da cui redimersi, piuttosto che come realtà che redime.
Il riconoscimento della funzione biologica e vitale del dolore, inaugurata da filosofi come Telesio, Hobbes, Spinoza, Leibniz e Kant, ha trovato il proprio naturale sbocco nelle scienze biologiche e nelle attuali concezioni mediche del dolore.
La dimensione metafisica del dolore è stata sostituita dalla sua dimensione empirica, e il dolore è stato assorbito nell’ambito delle scienze naturali e umane e nella riflessione di carattere bioetico.

Le neuroscienze ci stanno descrivendo con sempre maggiore dettegli i centri, le vie e i circuiti cerebrali del dolore.
La Teoria della mente incarnata ci fa comprendere con naturalezza perché sentiamo nel corpo dolori ‘fantasma’, o spirituali o dell’animo, e spazza via di un sol colpo tutto l’interminabile e sterile discorso sul dualismo cartesiano tra mente e corpo.
La definizione medica ufficiale del dolore è stata largamente accettata dai medici e ricercatori del campo del dolore, ed è stata adottata da numerosi professionisti di altri campi, da organizzazioni governative e non-governative, ivi compresa la World Health Organization.
Nel 2018 c’è voluto un panel internazionale di 14 membri comprendenti esperti con grande expertise nel campo clinico e delle scienze di base collegate allo studio del dolore, per formulare la nuova definizione: <<an unpleasant sensory and emotional experience associated with, or resembling that associated with, actual or potential tissue damage>>.
Eppure, quel che non finisce di colpirmi e stupirmi in questa definizione medica è quella affermazione ostentata sul danno tissutale!
Il neuroscienziato Jaak Panksepp ci ha con maestria indicato le origini neuroevolutive delle emozioni umane. Ci ha mostrato che siamo “nati per piangere”, che il dolore psicologico consuma la mente (anche non danneggiando attualmente o potenzialmente un tessuto corporeo); che l’uomo ha un lato oscuro della propria capacità di amare e di giocare, che è la sofferenza nel distacco dalle persone che amiamo, che ci accudiscono e che sono amorevoli con noi.
Panksepp ha trovato la via d’accesso neuroscientifica più rigorosa per lo studio e la comprensione dei meccanismi biologici del dolore e della sofferenza psicologica. Ha mostrato come sofferenza fisica e separazione sociale siano ugualmente capaci di farci soffrire. Ha mostrato come anche in tanti esseri viventi che ingiustamente giudichiamo inferiori, siano sviluppati dei centri e delle vie neuronali che attivano un tipo particolare di sofferenza che è la “vocalizzazione da ansia di separazione”; e come questo circuito ancestrale del nostro cervello sia un sistema che, attraverso sentimenti di sofferenza e dolore, pone le basi biologiche per i fondamentali legami sociali che sostengono la vita e il benessere.
Ma forse tutto ciò lo avevamo già compreso già prima di una dimostrazione scientifica, se il più grande Poeta del dolore, poteva scrivere:
Nasce l’uomo a fatica,
ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
per prima cosa; e in sul principio stesso
la madre e il genitore
il prende a consolar dell’esser nato.
Poi che crescendo viene,
l’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre
con atti e con parole
studiasi fargli core,
e consolarlo dell’umano stato:
altro ufficio piú grato
non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
perché reggere in vita
chi poi di quella consolar convenga?Giacomo Leopardi, Canto Notturno
Questa preziosa ‘circuiteria’ neurobiologica che Panksepp ha meticolosamente studiato, si è sviluppata quasi come una replica della ‘circuiteria’ cerebrale che presiede all’altro dolore (che solo per semplicità e mancanza di termini idonei, denomineremo “del corpo”).
Come diceva Marcel Proust: << la felicità è benefica per il corpo, ma è il dolore che sviluppa i poteri della mente>>; ed è per questo che non è possibile dare legami sociali e amore senza dolore, così come non è possibile dare protezione alla vita senza il meccanismo di difesa che è il dolore.
Non è forse giunto il momento di integrare nella concezione medica della algologia anche questi circuiti che io chiamo del dolore empatico?
Il dolore è uno dei fenomeni più difficile da definire in modo esaustivo, soprattutto per la sua soggettività, e il fatto che la sua storica definizione sia stata revisionata dopo più di 40 anni sembra esserne una riprova.
Il dolore attiene pienamente a tutta la dimensione umana (e non solo umana!), in un olismo che va ben oltre la Medicina e che si spande in largo e in profondità verso direzioni e significati che attengono a tutto il campo della Vita.
Scriveva Salvatore Quasimodo: avidamente allargo la mia mano: │dammi dolore cibo cotidiano.
E termino chiedendomi: dove ciascuno di noi posizionerebbe sul proprio personale quadrato semiotico i seguenti aforismi?
Kahlil Gibran: <<quando ho piantato il mio dolore nel campo della pazienza, mi ha dato il frutto della felicità>>.
John Keats: <<spesso il piacere è un ospite passeggero, ma il dolore ci stringe in un crudele abbraccio>>.
Michel De Montagne: <<chi sradicasse la conoscenza del dolore estirperebbe anche la conoscenza del piacere e in fin dei conti annienterebbe l’uomo>>.
Epicuro: <<il limite estremo della grandezza dei piaceri è la rimozione di tutto il dolore. Dove sia il piacere, e per tutto il tempo che vi sia, non vi è posto per dolore fisico, o dell’anima, o per l’uno e l’altro insieme>>.
Heinrich Heine: <<che cos’è il piacere, se non un dolore straordinariamente dolce>>.
Susanna Tamaro: <<quando il dolore è eccessivo, bisogna morire un po’ per andare avanti>>.
Stendhal: <<guardare da vicino il proprio dolore è un modo di consolarsi>>.
Marguerite Yourcenar: <<la musica mi trasporta in un mondo in cui il dolore non smette di esistere, ma si allarga, si placa, diventa insieme più calmo e più profondo, come un torrente che si trasforma in lago>>.
Carlos Ruiz Zafòn: <<se il vero dolore consistesse in uno schiaffo…>>
Hetty Hillesum: <<Il dolore? In qualunque forma ci tocchi incontrarlo – non fa veramente parte dell’esistenza umana>>.
Oriana Fallaci (da Insciallah – Milano, Rizzoli 1990): <<È incredibile come il dolore dell’anima non venga capito. Se ti becchi una pallottola o una scheggia si mettono subito a strillare presto-barellieri-il-plasma, se ti rompi una gamba te la ingessano, se hai la gola infiammata ti danno le medicine. Se hai il cuore a pezzi e sei così disperato che non ti riesce aprir bocca, invece, non se ne accorgono neanche. Eppure il dolore dell’anima è una malattia molto più grave della gamba rotta e della gola infiammata, le sue ferite sono assai più profonde e pericolose di quelle procurate da una pallottola o da una scheggia. Sono ferite che non guariscono, quelle, ferite che ad ogni pretesto ricominciano a sanguinare>>.
E ripenso all’incipit di Friedrich Nietzsche, e mi dico: <<Aver cura è dare un significato >>.

Beniamino Casale, responsabile IPAS Terapie Molecolari e Immunologiche in Oncologia – AO dei Colli – Ospedale Monaldi.