Le forme della Complessità.

nessun pasto è gratis

ovvero

il terzo volto di un Sistema Complesso

di Beniamino Casale

Ricordo che da bambino andavamo allo zoo di Napoli con i miei fratelli e i nostri genitori.

Quello zoo oggi è molto cambiato. È molto cambiata (o forse no?) anche la sensibilità dell’uomo verso gli animali. All’epoca gli animali in gabbia erano animali in trappola (e penso che ancora oggi sia così!) e lo zoo era una grande gabbia. Erano tante le domande che i bambini si ponevano.

E nella loro ingenuità, quelle domande erano rompicapo per i genitori maturi!

Non posso non ricordare, ancora oggi, i leoni nella gabbia dei leoni, accucciati come gattoni tramortiti da una mortifera noia e inazione; una lunga interminabile calandrella si era posata su di loro, che lasciava il suo effetto attonito anche quando il caldo forte non c’era.

Ma più di tutti, ricordo quella tigre che come un pendolo andava avanti e indietro… avanti e indietro… avanti e indietro, come una meridiana impazzita o come un paziente epilettico alle prese con una lenta, lunga, interminabile crisi clonica senza tono.

Cose degne di un orologio… non di un essere vivente alle prese con i propri affetti… (per non nominare l’anima)

Immagino ancora oggi come il suo cuore stesse impazzendo e come la sua mente cercasse una via di fuga. E ancora oggi sono triste per lei!I pasti gratis ai Leoni e alla Tigre di quello zoo, erano pasti salati.

Il matematico americano John Casti è considerato un pioniere della Teoria dei Sistemi.

Si è incamminato sul percorso del mito americano della frontiera – sintetizzato nel motto “go west boy”-, cavalcando lungo la linea di confine che dalla scienza classica tenta di spingersi nella nuova scienza: quella della Complessità.

La Scienza della Complessità è un modello scientifico deterministico, ancora perlopiù sconosciuto al mondo accademico e delle scienze imperanti.

Il mondo delle persone “normali” ne sarà a breve investito come da un’onda gravitazionale che si imporrà al pubblico come ha fatto lo spazio-tempo a quattro dimensioni di Einstein.

Ma non esisterà una formula semplice (o semplificata ad usum delphini) come E=MC2 a tracciare l’ombra matematica – come specchio di anamorfosi del reale -, di questa nuova via.

Questa è una di quelle vie che ben conoscono i maestri Zen: di quelle che si costruiscono solo percorrendole.

Come diceva Einstein tutto dovrebbe essere reso il più semplice possibile ma non più semplice del possibile.

Ed eccoci già al cuore del problema della Complessità: già  il suo nome designerebbe un ossimoro se essa fosse materia semplice; infatti: in questo caso sarebbe la Scienza della Semplicità…

E neppure dobbiamo credere che il nome sia stato mal assegnato!

Infatti, non si tratta di un esercizio retorico, e di ordine sofistico, in cui il nome non designa in maniera fedele l’oggetto a cui si riferisce, ma siamo piuttosto difronte a un modello di approccio e studio del reale in cui il nome è da intendersi nomen omen.

Ma non sono mancati – e ancora non mancano -, quei semplificatori ingenui che vorrebbero sistematicamente ricondurre ai modelli della scienza lineare una scienza che come un potente cavallo brado non può lasciarsi addomesticare da strumenti e metodi semplicistici e inadeguati al nuovo compito.

Ed è stato così, che nel corso degli ultimi decenni, abbiamo avuto quelli che senza una definizione linguistica precisa, semplice e lineare, ritenevano che non si potesse parlare di complessità né affrontare scientificamente il campo.

E poi, abbiamo avuto quelli alla spasmodica ricerca di un numero che fosse in grado di rappresentare in maniera semplice, su una scala classica e lineare, la dimensione di complessità di un sistema bersaglio, e ovviamente quelli della stessa schiatta, alla ricerca di sequenze di numeri lineari, che sempre sulla stessa scala lineare rappresentassero lo scarto di complessità tra due o più Sistemi Complessi a confronto tra loro.

Tale ultimo esercizio del numero, che si manifestò fruttuoso nel campo dei frattali, sarà forse non sterile allorché la Complessità potrà nuotare e respirare nelle sue acque vive e vivificanti.

Oggi invece, ancora da troppe parti, si cerca di studiarne la vitalità dopo aver mortificato il sistema stesso e l’ambiente in cui esso vive.

Sebbene una parte dell’Anatomia e della Fisiologia umana fossero “aggredibili” scientificamente alla maniera pur coraggiosa e ingegnosa di Leonardo da Vinci, ossia con il metodo di dissezione dei cadaveri, con l’utilizzo di questo stesso metodo abbiamo pur commesso tanti e talora fuorvianti errori nella conoscenza del corpo umano e del suo funzionamento; la “perfezione” dell’apparato umano non è nelle proporzioni e iscrizioni dell’Uomo vitruviano ma piuttosto in quell’ordine nascosto nel caos di un organismo che ha le forme e le movenze di un Sistema adattivo  complesso.

Così, un passo avanti nello studio dell’anatomia sottile e nella fisiologia umana, è stato fatto quando abbiamo compreso che non si poteva assimilare tout court la materia morta di un corpo con quella vivente di un uomo.

Oggi siamo alla continua ricerca di metodi di studio della morfologia e fisiologia umana che non siano distruttivi sul nostro oggetto di studio ma che invece ne preservino la funzione, sì da giungere ad una migliore comprensione dei “meccanismi” umani e animali e della vita in genere.

In fondo siamo alle prese con lo stesso problema con cui si è imbattuta la fisica quantistica: come studiare un sistema senza interferire con esso?

La risposta è oggi nota: è impossibile!

Quel che ci resta è la possibilità di studiarlo senza annichilirne tutte le caratteristiche; e per far ciò dobbiamo utilizzare gli strumenti di una scienza nuova.

Così come per l’organismo umano, anche un Sistema Complesso ha per natura dichiarata nel nome stesso, quella di interagire con sotto-sistemi che sono al proprio interno e con sistemi esterni, configurando una rete di sistemi “adattivi complessi” (cioè che si adattano nel tempo, cangiando forma e funzioni in risposta alle interazioni con gli altri sistemi) in cui la forma e le reazioni del sistema oggetto sono dettate oltre che dalla propria anatomia anche dalla interazione continua con i sistemi esterni.

Nel nostro caso, quindi, nomina sunt consequentia rerum; ma poiché le cose all’interno del Sistema sono in un continuo ribollente cambiamento, allora dobbiamo accettare la necessità che al medesimo nome si diano contenuti sempre un po’differenti, in un continuo gioco ove l’identità di un sistema oggetto è un Proteo guardiano di un logos sfuggente ma “irretabile”.

Allora, che senso ha studiare un Sistema adattivo complesso preso fuori dal suo habitat naturale?

Che senso ha studiare un organismo morto per comprendere la vita?

Che senso ha studiare quei leoni e quella tigre in quello zoo?

Certo alcune informazioni e conoscenze potremmo anche guadagnarle; ma esse potranno essere utili solo se prese come punti di partenza parziali, come ipotesi di studio e approfondimento.

Solo uno studio accorto e intelligente della morte potrà dischiuderci alcune conoscenze dei meccanismi della vita; così come, solo uno studio attento e intelligente degli animali in cattività potrà dischiudere alla nostra conoscenza alcuni meccanismi di azione di un predatore in caccia nel proprio ambiente naturale.

Ma da integrare a queste conoscenze non potranno poi mancare gli studi sul campo: lo studio della vita nel campo della vita e quello di leoni e tigre nel proprio habitat (o in ciò che ne resta!)

È stato così che la Scienza della Complessità ha ben presto compreso che si poteva parlare e studiare un campo semantico anche senza averlo definitivamente recintato, mortificato o ingabbiato!

Anzi, proprio l’apertura del campo sulle linee di frontiera ne garantisce la vitalità e consistenza e ne rende utile lo studio!

Si è finalmente compreso che non sono isolabili le caratteristiche sistemiche di un oggetto complesso, come la Struttura del sistema, il Comportamento del sistema, il Funzionamento del sistema, la Percezione che gli osservatori hanno del sistema; così come si è compreso che bisogna studiare il sistema bersaglio insieme con i sistemi con cui il bersaglio stesso interagisce e nel contesto generale in cui i sistemi interattivi e adattivi sono immersi e vivono.

Non è facile… infatti è complesso!

Ma complesso è differente da complicato.

Non basta spiegare le pieghe ma bisogna costruire la rete giusta e la forma giusta per irretire il nostro Proteo.

Benvenuti nel mondo della Complessità!

Ne sarete entusiasti se saprete cavalcare questo cavallo brado con lo spirito che Roger Caillois attribuiva ai giochi: agon, alea, mimicry e ilinx.

Soprattutto ilinx saprà darvi quella vertigine che può diventare l’ebrezza del far west della curiosità scientifica e della conoscenza anche per fini pragmatici, a cavallo delle montagne russe della Complessità.

In un semplice esercizio di trasposizione dell’ordine di trattazione di un elenco lineare, qui parlerò del Terzo Principio della Complessità, prima di aver parlato dei primi due e prima di averli elencati tutti.

Ai tempi del far west, all’entrata dei saloon, la scritta <<pasti gratis>> era divenuta un comune slogan che serviva da specchietto per le allodole.

Gli avventori entravano nei locali con l’idea di dover pagare solo la consumazione in bevande ma venivano loro serviti pasti salati che aumentavano la sete e quindi le consumazioni in bibite, e così alla fine dei conti uscivano dal saloon solo dopo aver speso più che se avessero pagato un normale pasto con bevanda.

Milton Friedman

Milton Friedman, premio Nobel per l’economia nel 1976, trasformò questo slogan nel celebre there ain’t no such thing as a free lunch ovvero: “non esistono pasti gratis”.

Con la rivisitazione di questo slogan, Friedman intendeva affermare che qualsiasi azione dotata di una valenza economica ha un costo che prima o poi qualcuno dovrà pagare.

Anche ciò che è gratuito per un individuo, in realtà nasconde sempre un costo che dovrà essere sostenuto da qualcuno. Se questo qualcuno non è l’individuo stesso che ha avuto il pasto, allora dovremo andare alla ricerca di un altro pagatore presente o futuro, che spesso – ma non solo! – è rappresentato dalla società.

Ad esempio: un sistema di welfare che preveda una Sanità gratuita per alcuni individui, reca un beneficio alle persone in difficoltà ma costituisce un costo per lo Stato e quindi per i contribuenti.

Quindi, in guardia, che se ci mettiamo alla ricerca, un pagatore alla fine lo rinveniamo sempre;

e talora è lo stesso consumatore che paga il prezzo del pasto (amaro ancor più che salato), con la propria dignità: <<tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui, e com’è duro calle lo scender e ’l salir per l’altrui scale>> dice Cacciaguida a Dante nella Commedia…

In campo economico, there ain’t no such thing as a free lunch (TANSTAAFL) è  divenuta  una delle frasi più citate per indicare un principio fondamentale dell’economia: il costo-opportunità.

Nel modello costo-opportunità vige il fatto che qualsiasi azione si intraprenda, se ne dovranno tralasciare delle altre alternative, e già questo è un costo ineliminabile.

Quantitativamente si può pensare al costo della opportunità mancata come al prezzo della migliore alternativa non colta per effettuare l’investimento in ciò che invece si è deciso di intraprendere.

In ultima analisi, anche al netto di guadagni importanti su altri fronti, resta la risorsa tempo speso per svolgere un’attività;

e quindi, quantomeno in termini di tempo, se pur si vogliono tralasciare altre risorse messe in campo per raggiungere un obiettivo, non possiamo immaginare alcuna attività in cui non ci sia una spesa in risorse.

E per l’uomo, il tempo è la risorsa più cara in assoluto.

Perciò, nel nostro mondo: no free lunch (NFL)!

Lo slogan TANSTAAFL è stato adottato in numerosi campi.

I movimenti ambientalisti lo hanno utilizzato per portare all’attenzione del vasto pubblico l’importanza di un uso consapevole delle risorse naturali.

Infatti, non solo il capitale e la forza lavoro, ma anche le risorse naturali, non si creano dal nulla né tantomeno sono illimitate; pertanto, il loro sfruttamento implica sempre un costo per l’ambiente e quindi per gli esseri che vivono in quell’habitat.

E se pensiamo alla Terra come ad un villaggio globale, qualsiasi utilizzo indiscriminato di risorse diviene un potenziale nocumento per tutto il sistema di Gea.

I matematici hanno sviluppato il teorema “no free lunch” (NFL) grazie a David Wolpert e William Macready.

NFL è apparso in matematica in un lavoro del 1997, come “No Free Lunch Theorems for Optimization“.

In precedenza,Wolpert aveva già derivato il teorema no free lunch per le inferenze statistiche e il machine learning.

In campo matematico, NFL ci dice una cosa molto semplice ma essenziale: due qualsiasi algoritmi di ottimizzazione hanno la stessa potenza di previsione se vengono testati su tutti i possibili problemi; e quindi, affinché un algoritmo possa essere migliore di un altro per risolvere un dato problema, oltre a scegliere l’algoritmo dobbiamo anche scegliere su quale campo di applicazione il nostro algoritmo deve funzionare.

Questo fatto, non vi ricorda quanto abbiamo già detto circa la circostanza che in un sistema complesso, oltre che il sistema in sé, dobbiamo anche valutare il sistema che lo ospita o incapsula?

E infatti:

il Terzo Principio della Complessità di John Casti, afferma proprio questo: tutto ha un costo (no free lunch).

Se vogliamo che un qualsiasi sistema complesso – sia esso matematico, economico, sociale, politico, sanitario o sia esso la vita stessa -, operi ad un elevato livello di specificità ed efficienza, allora sarà necessario investire su di esso enormi risorse ovvero sarà necessario perdere qualcosa a livello di resilienza, ridondanza e pleiotropismo;

e in ultima analisi, quanto più vogliamo ottimizzare un risultato o un obiettivo, tanto più dovremo avere a disposizione potenza di analisi e tempo.

E se non abbiamo a disposizione in maniera illimitata queste risorse, sarà allora necessario avere disponibili delle soluzioni euristiche o scorciatoie.

Per esempio:

un uomo potrebbe volere una soluzione ottima nella risoluzione di un problema importante per la sopravvivenza, quale potrebbe essere la strategia di fuga migliore da un leone predatore.

Il nostro cervello razionale (semplifichiamo denotandolo come cervello sinistro) ha a disposizione i mezzi di calcolo per giungere alla soluzione (tramite l’utilizzo del suo solo brain o del brain più un artefatto culturale di ausilio e potenziamento quale un computer con algoritmi di calcolo della migliore strategia di fuga).

Ebbene, si dà il caso che, se si è a casa propria con tempo a disposizione per immaginare tutti gli scenari possibili, alla fine uscirà fuori un bell’elenco su tutte le possibilità di fuga da mettere in campo al momento giusto. Se invece di starsene comodamente a casa, il nostro amico umano è nella contingenza di trovarsi in una savana inseguito da un leone affamato, dovrà allora mettere in atto una euristica di fuga (si affida al cervello destro per usare poco più di una metafora), che offre un risultato accettabile per il tempo che si ha a disposizione ma non ottimo in assoluto.

Stiamo in fondo parlando dei pensieri lenti e dei pensieri veloci di Daniel Kahneman.

L’utilizzo di strategie preconfezionate da mettere in campo in maniera repentina in caso di necessità urgenti (euristiche del pensiero e dell’azione), ci può salvare la vita; ma le stesse euristiche divengono bias cognitivi e talloni di Achille allorché vengono utilizzate in contesti differenti, in cui sarebbero più proficue strategie di pensiero lento ed analisi approfondita seguita da sintesi.

Ancora una volta bisogna commisurare risorse, obiettivi e costi di un’azione.

E come ci dice il teorema NFL, non esiste una strategia ottima per tutte le situazioni e che per ogni contesto dobbiamo pagare un conto, valutando quali risorse abbiamo a disposizione e scegliendo quali risorse mettere in campo, in base ai risultati che vogliamo raggiungere e ai rischi che siamo disposti a correre.

Io sono Medico e sono stato allenato durante tutta la mia formazione continua, a prendere decisioni bilanciate sul modello rischio-benefici.

Il contesto più abituale è quello di cercare un bilancio ottimale tra rischi e benefici per il paziente.

Ad esempio: <<utilizzando un determinato farmaco per una determinata malattia, quali benefici potrà ricevere il mio paziente? E quali rischi correrà?>>.

Il modello può prevedere che i rischi e benefici possano essere a carico di un altro soggetto in un modello che ricorda il terzismo.

Ad esempio: <<quali rischi vuole assumersi una comunità per contrastare una pandemia con un vaccino mai sperimentato prima, diretto contro una malattia mai conosciuta prima?>>.

Secondo voi, come sarebbe meglio calcolare in questo dato scenario i rischi e benefici per la comunità e per i singoli? Con un pensiero lento e cauto o con uno veloce e incauto?

Valutiamo: <<Abbiamo ancora il leone alle spalle che ci insegue veloce? O piuttosto, visto anche che ci sono state liberalizzazioni su tante limitazioni adottate per la pandemia, il leone non è più col fiato sul nostro collo ed è giunto il momento di passare ad un pensiero lento di analisi e sintesi di quanto accaduto ed ancora in corso?>>

Qualcuno mi ha sospirato: <<Non è che la così detta dittatura sanitaria, che poteva essere una necessaria – anche se sgradita – euristica dell’emergenza pandemica, si stia assestando in un pericoloso bias cognitivo foriero di una dittatura da nuovo ordine mondiale?>>

E allora, perché rimango perplesso quando un influencer dello spessore di Bill Gates in una TED talk ci dice che abbiamo le strategie e i mezzi per costruire un futuro libero da pandemie, se mettiamo finalmente su un team organizzato in un Global Epidemic Response and Mobilization (GERM), grazie a investimenti nel monitoraggio di malattie, in ricerca e sviluppo, e in un sistema di salute potenziato che può <<create a world where everyone has a chance to live a healthy and productive life – a life free from the fear of the next cOVID-19>>?

Mi chiedo:

perché improvvisamente rabbrividisco in distopiche visioni quando si parla della possibilità di vivere una vita in salute e produttiva, libera dalla paura di una nuova pandemia?

Ecco che poi entro in modalità di pensiero lento e mi sovviene la risposta a quella inconscia reazione di brivido, con una domanda:

<<perché parlando di esseri umani, qualcuno ritiene che debba essere una massima aspirazione una vita produttiva (e vabbé, anche in salute e senza paura) piuttosto che una vita in cui ciascuno possa legittimamente e nel rispetto degli altri, perseguire ideali e finalità di crescita personale e del proprio prossimo, di felicità e di ben-essere?>>.

Mica son rimasto solo io a pensare che la produttività materiale, fine a se stessa e non come strumento volto al raggiungimento di obiettivi anche di ordine spirituale (metaobiettivi), vada richiesta ad una macchinetta del caffè o a un aspirapolvere? E non ad un essere vivente degno di questo nome!

E mi sovviene il titolo di un libro che lessi tanto tempo fa: “Se questo è un uomo”.…

Beniamino Casale, responsabile IPAS Terapie Molecolari e Immunologiche in Oncologia – AO dei Colli – Ospedale Monaldi.

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