MA TU VULIVE ‘A PIZZA…

Quand’ero ragazzo e si parlava di pizza, pensavo solo a quella napoletana, al massimo a quella di scarole o a quella rustica, ma arrivato alle scuole ginnasiali scoprii che ne esisteva un altro tipo. Lessi infatti nell’Eneide la profezia dell’arpia Celeno, che diceva a Enea che i troiani sarebbero arrivati in Italia colti da tale fame da mangiare le loro mense, piatti sui quali gli antichi mettevano il cibo. Avrebbero poi capito di esser giunti all’Antica Madre, luogo di origine della gente troiana, quando Julo, vedendo che i compagni divorati dalla fame avevano cominciato a mangiare le focacce (che fungevano da piatti) sulle quali erano stati posti agresti frutti, esclamò Oh mangiam le mense!

L’episodio fa comprendere come questa schiacciata, per la sua semplicità, sia presente ancor oggi nella tradizione di tantissimi Paesi grazie alla pasta lievitata (inventata dagli egizi), e come costituisca l’elemento base dell’alimentazione quel lievito che Leeuwenhoek vide al microscopio per la prima volta, seguito da Pasteur che ne scoprì la fermentazione. Il passaggio da questa pizza alla nostra ha richiesto tantissimo tempo.

La parola pizza viene usata per la prima volta in un’opera del Cinquecento, in cui si dice che focaccia in napoletano è detta pizza, anche se si tratta di una schiacciata di farina di frumento impastata e condita con aglio, ‘nzogna e sale grosso, che solo successivamente lascerà il passo all’olio d’oliva, al formaggio e alle erbe aromatiche come il basilico.

In quel capolavoro della letteratura barocca che è il libro di favole di G.B. Basile Lo Cunto de li cunti ce n’è una che si chiama Le due pizzette, ma la pizza è ricordata più volte anche in numerosi altri racconti del libro.

Nel Seicento appare la prima pizza con un nome proprio: la Mastunicola. Secondo la leggenda, una donna avrebbe preparato una pizza per Nicola, marito muratore, sulla quale aveva messo sugna, formaggio e cicoli di maiale. Questa ricetta, diffusa durante i Moti di Masaniello e la peste a Napoli, è sopravvissuta tutt’ora. Questa versione del racconto è simpatica, per quanto ritenga che in realtà Mastunicola significhi fatta con il Vasenicola, cioè il basilico.

La seconda pizza degna di nome fu la Marinara, chiamata così perché rappresentava la semplice colazione dei marinai che andavano a pesca, e che era preparata con aglio, olio e origano. Poi sono arrivate le versioni con le alici e con i cicinielli, la variante che preferisco anche se è introvabile in quanto l’ASL vieta ai pizzaioli l’utilizzo dell’ingrediente.

La pizza è un pasto completo e economico, che ha sfamato per centinaia di anni il popolino, chiamato mangiafoglie perché si accontentava di verdura e farina (non a caso la gabella sulla farina è stata una tra le cause della rivolta di Masaniello).

Nel Settecento ha sfamato gli oltre 300.000 abitanti della città. La prima pizzeria fu aperta a piazza Cavour, poi a Porta Capuana e sotto Port’Alba (dove ancora continua l’attività). Preparata sulla fornacella per strada, davanti ai bassi, era sotto l’occhio di tutti, e ciò ne ha favorito la diffusione in ogni angolo di Napoli, divenendo in breve uno street food che colpì i viaggiatori del Grand Tour come Goethe.

Ma perché la focaccia è rimasta tale in tutto il mondo, mentre a Napoli ha avuto un’evoluzione? Credo che le cause siano due: il pomodoro e la mozzarella.

Quando arrivò dall’America, la pianta di pomodoro era ritenuta ornamentale e quasi velenosa, o comunque non idonea all’uso culinario. Le cose cambiarono con la diffusione, verso fine Seicento, nel Vicereame di Napoli, dove s’iniziò a coltivarla. Nel 1770 a Ferdinando IV di Borbone furono donate delle bacche provenienti dal Perù (che apparteneva alla Corona dei Borbone di Spagna); seminate nella piana di San Marzano, a contatto con la natura vulcanica del suolo e trattate con opportune tecniche esplosero e acquistarono quel colore rosso che contraddistingue i San Marzano.

La mozzarella fu aggiunta in un secondo momento, ma è stato un matrimonio felice.

La pizza era un cibo povero per i poveri, e gli aristocratici non pensavano affatto di assaggiarla, ma Ferdinando IV, il Re Lazzarone, che parlava soprattutto in dialetto e amava frequentare la plebe, mischiarsi a essa e condividerne i gusti culinari, un giorno si recò alla pizzeria di ‘Ntuono, alla salita di Santa Teresa, verso Capodimonte. Quella pietanza gli piacque talmente tanto che fece costruire un forno nel parco della Reggia, in modo da farla gustare anche alla Regina. Va però detto che quella di cui parliamo non è ancora la pizza col pomodoro, bensì una schiacciata preparata con una farina non bianchissima, e con tanti ingredienti.

Bisognerà aspettare il libro Usi e Costumi di Napoli e Contorni del 1858 per trovare finalmente descritta la nostra pizza: Prendete un pezzo di pasta, allargatelo e distendetelo con il mattarello o percuotetelo con le mani, mettete sopra quello che vi viene in testa, conditelo di olio o di strutto cuocetelo al forno e saprete che cosa è una pizza.

Nel 1866 de Bourcard parlerà di una pizza coperta di formaggio grattugiato, strutto, un po’ di basilico, sottili fette di mozzarella e a volte di pomidoro. È la Margherita, descrittacon venti anni di anticipo rispetto a quella che la propaganda sabauda attribuisce come omaggio alla Regina.

Collodi disse che con tutta quella roba su, la pizza aveva l’aria di sudiciume che sta benissimo con quello del venditore, ma da uno che ha scritto Pinocchio, re delle bugie, che c’è da aspettarsi?

La pizza va mangiata con le mani, a libretto o a portafoglio, perché così si mantiene calda e non si disperdono gli ingredienti. Per essere gustata bene è meglio mangiarla seduti al tavolo più vicino al forno, così non cammina troppo e cade bollente nel piatto, senza perdere odori e sapori.

A fine Ottocento nasce la pizza moderna, anche se Salvatore Di Giacomo scrive Donna Amalia ‘a Speranzella quanno frije pasta crisciuta… ed è anche più ricca d’ingredienti, perché la città sta uscendo dalla miseria e l’acqua del Serino favorisce la bontà dell’impasto.

Purtroppo è pure l’epoca di Partono i bastimenti pe’ terre assai luntane… il periodo della grande emigrazione verso le Americhe, dove gli emigrati custodivano nella memoria il ricordo dei cibi della loro terra. Fra loro non c’erano pizzaioli di mestiere, perché il mestiere a Napoli rendeva bene, così per cercare un legame con la patria molti s’improvvisarono pizzaioli. Non avevano i prodotti d’origine, e dovettero quindi arrangiarsi con formaggi, pomodori e altri ingredienti più graditi alla clientela locale, fino a che, dopo la Seconda Guerra Mondiale, rientrarono quei soldati che avevano mangiato la pizza a Napoli (dove avevano portato la farina Manitoba) e tutto cambiò: nacquero catene come Pizza Hut, fu inventata la pizza congelata, e gli americani ancor oggi credono che la pizza l’hanno creata loro.

Del resto anche nel nord Italia le prime pizzerie sono state aperte solo nel dopoguerra, con il fenomeno dell’emigrazione interna verso le regioni più industrializzate, agevolate dai rapidi collegamenti ferroviari che consentivano la consegna ai pizzaioli emigrati dei prodotti campani con tempi di percorrenza che non deterioravano il fiordilatte o il pomodoro.

La pizza a Napoli è un’arte, un monumento a ingegno, cultura, voglia di vivere, e tanti le hanno dedicato il loro estro, come Viviani, Di Giacomo, Serao, Gambardella (autore de ‘O marenariello), Pino Daniele e persino Berlusconi, che con Mariano Apicella ha scritto ‘A pizza americana. Una nota a parte merita Giuseppe Marotta, che ne L’Oro di Napoli racconta della bella pizzaiola del quartiere Stella immortalata nell’omonimo film da Sophia Loren, rappresentando un’immagine colorata e colorita della vita del vicolo. Per i più piccoli non dimentichiamo il cartone animato Totò Sapore e la magica storia della pizza e la divertente canzone dello Zecchino d’Oro Ma che pizza!

Una volta le pizze erano vendute dal pizzaiolo ambulante, che le portava in giro calde calde, chiuse in una stufa di rame poggiata sulla testa e canticchiava una musica inventata: Me songo appiccicato io e ‘o pasticciere, stì pizze songo meglio de’pastiere.

Poi c’era la famosa pizza A ogge ‘a otto: la mangiavi oggi e la pagavi, con un piccolo interesse, dopo otto giorni; era una pizza sulla parola, perché i banchi di vendita non erano aperti tutti i giorni ma anche solo una volta a settimana. Il proprietario del banco, in base alla vendita effettuata la settimana precedente, si rendeva anche conto di quante pizze dovesse preparare e quanti ingredienti comprare per evitare che quanto aveva preparato andasse a male.

Pizza, pizza fritta, calzone… chiamatela come volete, ma la sposa aveva ragione: …ma tu vulive ‘a pizza… e io pure! 

Sergio Giaquinto, Giurista, già Dirigente Amministrativo dell’A.O. dei Colli, cultore di Storia e Archeologia

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