MALATTIE RARE: GLI EFFETTI COLLATERALI DELLA FRAGILITÀ

Rosa Luxemburg una volta ha detto che il primo atto rivoluzionario di qualunque agire è chiamare le cose con il nome che hanno. Eppure esistono nomi, parole, concetti e piccole intime rivoluzioni, che risultano più difficili da concepire e da attuare dacché, violente e inattese come quegli effetti collaterali di cui pure leggiamo ma che nel nostro caso non contempliamo mai, ci mettono davanti la nostra vulnerabile essenza, e tutta l’esuberanza del Destino.

La quieta normalità delle nostre vite, più o meno manipolata da elementi culturali e sociali che ci hanno però comunque concesso l’illusione che fossimo sempre noi a condurre regole e ritmi, è stata d’improvviso turbata da un imprevisto battezzato pandemia. Nondimeno, un nugolo silente di persone meno sparuto di quanto ci conforti pensare, ha già affrontato in anticipo questa perturbante sensazione di disorientamento, che porta un altro nome e degli effetti collaterali assai meno ragionevoli: diagnosi. Per molti, che la normalità dovesse cambiare con la pretesa di adeguamenti immediati e senza troppe lagnanze, non è stata una sorpresa, bensì la conferma di un dolore privato che abita dentro, e che poco confida nella lungimiranza degli altrui provvedimenti, nutrendosi della triste sensazione che nessun altro possa capire, e che in fondo si sia soli e dispersi, piccoli e spogli, indistinguibili e opachi, nel multiforme mondo delle malattie. Allorquando qualcuno in camice e guanti, un giorno come tanti che cambierà tutti gli altri a venire, formulerà una diagnosi di patologia accompagnata da un aggettivo, uno soltanto, in grado di mutare ogni cosa a lei connessa: rara.

La malattia, per qualcuno, diventa un fatto identitario più che di possesso: non si ha una malattia, si è malati. Questo perché ammalarsi stravolge i connotati, modifica l’umore, ridisegna priorità, ridefinisce affetti, e spesso si traduce in atto interrogatorio non solo in relazione al legame tra paziente e Domanda di Salute (non a caso), ma proprio nei dilemmi che il corpo pone con costanza, chiedendoci chi siamo durante la tempesta, fin dove possiamo arrivare, quanto vogliamo guarire, e se Ippocrate aveva davvero ragione nell’asserire che valga più sapere che tipo di persona abbia una malattia, e non che tipo di malattia abbia una persona. La malattia ci cambia, ci leviga a intensità che nemmeno percepiamo, un po’ come l’acqua del mare quando sfiora le onde, tempo dopo tempo, mutandone i contorni; così fa con noi il dolore del corpo, che detta nuove regole anche a quello del pensiero, e l’anima diventa più forte e combattiva, ma pure più ferita. La prima cosa che una malattia rara sottrae a chi la vive è la consapevolezza. Ché non sempre è possibile ricevere una diagnosi rapida ed esatta. Ma prima ancora, vien meno la fiducia nel racconto, l’accoglimento di un dolore veritiero. Sicché il malato raro, dai sintomi sovente subdoli e bugiardi, non sempre viene creduto, prima ancora che dai medici, proprio da chi nell’esperienza lo accompagna, e che si formalizza nel ruolo di caregiver. Talvolta a nulla vale rammentare la vecchia storiella americana, metafora di un approccio di ascolto ed empatia, che raccomanda di pensare sempre, sentendo l’incedere di zoccoli in avvicinamento, che stia per arrivare qualche cavallo, ma che pure esistono le zebre, e a quelle non ci pensa mai nessuno. La convergenza dei malanni non per forza (e non subito) aiuta a sentirsi più vicini: c’è un lasso di tempo incalcolabile, una sospensione di giudizio e di speranza che il raziocinio umano non governa, nel quale il malato raro pensa di essere del tutto privo di ogni approdo, solo, isolato, e condannato all’incomunicabilità, che forse è uno dei sintomi più dolorosi e seri da affrontare. Silenzio, solitudine, mancanza di conforto, incredulità propria e del contesto, elaborazione di un dolore esteso ad ampio raggio, diagnosi incompleta, ritardo della cura, ricerca spesso autonoma degli interlocutori, fatiche sanitarie ed emotive, percorso in salita e a ritroso, passi avanti intervallati da cadute, mancanza di elementi e di immedesimazione. Questi sono solo alcuni degli effetti collaterali indicati in piccolo sul bugiardino ideale di una malattia rara come ce ne sono tante, oltre 8.000 sentenziano con rigidità i numeri, anche se il dato è in forte crescita con l’avanzare delle informazioni, della Ricerca, della sensibilizzazione al tema.

Essere tanti e sentirsi così soli è cosa ardua da metabolizzare, e deturpa ogni manutenzione, figuriamoci l’ostinata parvenza di normalità che il paziente defraudato ma tenace rivorrebbe. Sicché i malati stessi riscrivono quel loro bugiardino, mutano atteggiamento, si vestono di consapevolezze, fondano associazioni, radunano competenze ponendole al servizio di una comunità proattiva, ne fanno medicine, terapie, strumenti di sollievo, sistemi per lenire fatiche e turbamenti, fino a diventare pazienti esperti, figure rappresentative, presenze rilevanti tra decisori e tecnici. Un giorno, una brava scrittrice americana che ha ben sperimentato l’incedere inesorabile del malanno, con gran poesia ha definito la malattia il lato notturno della nostra vita, quella cittadinanza più onerosa che in fondo a tutti tocca, di ciascuno diventa patrimonio. Noi, con assai meno abilità ma in coerenza a questi spazi che ospitano parole e racconti di chi ci rassomiglia in qualche modo, parleremo invece di Effetti collaterali, di quella distopia, di quella disfunzione in più di cui pure si parla, ma che a nessuno parrebbe appartenere. Fin quando non arriva, cambiandoci la vita.

Celeste Napolitano, lavora a diverse intensità negli ambiti dell’Editoria e della Comunicazione, vive di parole, e in lei alberga una zebra congenita che le ruggisce dentro

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