Le malattie rare sono tali se considerate singolarmente; nella totalità sono invece migliaia, si stima tra 7.000 e 8.000, molte senza nome tanto sono infrequenti: nella rarità, alcune lo sono più di altre.
In Europa sono definite rare quelle patologie che colpiscono 5 persone su 10.000 (o, secondo la formula che si preferisce in Italia e che lascia inalterata la percentuale, 1 persona su 2.000).
Spesso di origine genetica, con probabile andamento ingravescente, difficilmente curabili, le malattie rare sono eterogenee per sintomatologia, età d’insorgenza, gravità. Quasi sempre ai pazienti occorrono anni di visite ed esami per avere una diagnosi. Quando riescono ad averla.
Le patologie sono rare e i farmaci orfani, così definiti perché, essendo destinati a un numero limitato di pazienti, la loro realizzazione non consente alle aziende farmaceutiche di recuperare i costi sostenuti per produrli: spesso, dunque, tali farmaci diventano introvabili.

Affrontare una malattia rara è una sfida per medici e ricercatori, ma soprattutto per il paziente, colpito nella sua sfera privata e fisica (limitazioni, dolore, sintomatologia legata alla malattia in quanto tale), come in quella psicologica e sociale (le ripercussioni sulla vita pubblica ed emotiva che la malattia comporta). È inoltre una sfida continua per le famiglie, la cui vita spesso ruota intorno alle esigenze del paziente.
Simona Bellagambi, membro italiano del Consiglio Direttivo Eurordis, Federazione che riunisce centinaia di associazioni che si occupano di malattie rare in tutto il mondo, ha recentemente sottolineato l’importanza della presa in carico globale del paziente raro, di un approccio integrato che coinvolga anche gli aspetti sociali e psicologici: la cura di una persona con malattia rara oggi deve essere il trionfo di quel triangolo terapeutico teorizzato dalla sociologia della Salute e della Medicina, in cui la presenza, l’assenza o la combinazione di disease (malattia), sickness (percezione sociale della malattia) e illness (esperienza di malattia vissuta dal paziente), permettono di valutare e stabilire quale sia il miglior approccio terapeutico per il singolo individuo.
Le malattie sono rare, i farmaci orfani e i pazienti sono, o almeno si sentono, soli: è complicato spiegare una malattia poco conosciuta e spesso invisibile sul corpo; è difficile trovare comprensione anche nel gruppo amicale, di lavoro, scolastico quando la malattia colpisce poche persone. Talvolta anche la famiglia, il partner, i figli, appaiono distanti, increduli, stanchi. Quanto più il senso di solitudine ed emarginazione che accompagnano il percorso di vita del paziente raro si acuiscono, tanto più si chiuderà in se stesso, alimentando il senso di solitudine e incomprensione.
Il 5 e il 6 ottobre scorso si è tenuto, in modalità web streaming a causa delle norme di sicurezza per l’emergenza Covid-19, il Congresso Regionale Malattie Rare 2020. Il Responsabile dei lavori, il dottor Giuseppe Limongelli, ha chiesto ai relatori di presentare, attraverso le personali esperienze di curanti, lo stato dell’arte su diagnosi, cura, riabilitazione della patologie rare che coinvolgono i vari apparati, dedicando ampio spazio ai PDTA, Percorsi Diagnostico Terapeutici Assistenziali il cui scopo principale è quello di uniformare l’approccio clinico a determinate categorie di pazienti.

Sebbene la strada da fare sia ancora lunga e tortuosa, le malattie rare stanno via via emergendo dal limbo d’incertezza e indifferenza che le hanno fino a qualche anno fa contraddistinte. Stanno trovando visibilità e interesse da parte del mondo medico, della Ricerca e accademico. I pazienti iniziano ad avere un nome che non sia più solo quello della patologia che li affligge… almeno quando la malattia un nome lo ha; iniziano ad avere voce, considerazione, medici e professionisti sanitari che prendono a cuore, e non solo in carico, la loro situazione.
L’uomo è l’unico essere vivente capace di raccontare il suo dolore, mentre cerca di sconfiggerlo. Il paziente con malattia rara spesso il dolore (soprattutto emotivo) lo subisce, e vi si arrende. Non lo racconta, perché teme che pochi sarebbero disposti ad ascoltarlo, e soprattutto a capirlo.
I pazienti rari non vanno compatiti, neppure commiserati, ma devono essere supportati, seguiti, incoraggiati, spronati… devono capire e percepire, sentire, soprattutto credere che, seppur rari, non saranno mai soli.
I vari Antonio, Maria, Gianni, Pasquale, Rosa… hanno bisogno di convincersi che non sono 1 su 2.000 o 5 su 10.000, ma uomini e donne, giovani, adulti, casalinghe o impiegati, genitori, nonni, nipoti, che occupano un posto nel mondo, anche se il mondo devono guardarlo da una scomoda sedia o sempre dalla stessa finestra; devono svegliarsi e sentirsi attori protagonisti della giornata che costruiranno… e questa consapevolezza intrisa di vitalità e coraggio, quando raggiunta, sarà la loro forza, sarà una carezza sul cuore… sarà l’arcobaleno nel loro tempo buio.

Rosa Maria Bevilacqua, Sociologa, A.O.R.N. “San Giuseppe Moscati”- Avellino, Delegata alla Sanità ASI (Associazione Sociologi Italiani)