Mamma li Turchi!

All’armi, all’armi, la campana sona, i Turchi so’ arrivati alla marina. Le torri di avvistamento hanno dato il segnale dell’arrivo dei pirati saraceni, accendendo i fuochi: le campane delle chiese allertano gli uomini che cercano di opporsi alla scorreria fra le strette viuzze di quei paesi, mentre la gente fugge verso l’interno per salvarsi. I Saraceni sbarcano, devastano, rubano, violentano, uccidono e portano via sulle navi giovani, donne e uomini validi da vendere nei mercati di schiavi orientali.

I paesi della penisola sorrentina, della costiera amalfitana e di quella cilentana hanno subito, per centinaia di anni, le razzie saracene fin dal IX secolo, ma a volte i Ducati di quel tempo si sono alleati con i pirati per combattere i rivali: il primo fu il Ducato di Napoli che li utilizzò contro i Longobardi.

I Saraceni erano popolazioni berbere provenienti dalle coste dell’Africa settentrionale e dalla Sicilia, isola che secondo una leggenda fu conquistata dagli Arabi a seguito di una storia d’amore. Si racconta, infatti, che Eufemio, governatore bizantino della Sicilia, si innamorò follemente di una suora che poi sposò. I fratelli di lei si rivolsero all’Imperatore di Bisanzio, affinché intervenisse per salvare il nome della famiglia, ma quando le forze bizantine arrivarono per punire Eufemio, questi si ribellò all’Autorità imperiale e chiese aiuto ai Saraceni, i quali intervennero sconfiggendo l’esercito nemico e da alleati diventarono padroni della Sicilia.

Le incursioni saracene hanno interessato tutte le coste italiane, ma particolarmente importanti furono quelle rivolte contro Roma in due occasioni: la prima nell’anno 830 quando le orde distrussero le Basiliche di San Pietro e di San Paolo, che erano fuori le mura della città, la seconda nell’anno 846 quando l’attacco fu rivolto direttamente contro la città per conquistarla e per uccidere il Papa che allora abitava il Laterano. Roma resistette a questo tentativo, ma i Saraceni saccheggiarono ancora le due Basiliche, per cui il Papa per proteggere San Pietro alzò quelle mura che ancora oggi circondano il Vaticano, le mura leonine (costruite da Leone IV).

Intanto, per porre fine ai ripetuti tentativi saraceni contro la Città Santa, Napoli, Gaeta, Amalfi e Sorrento si coalizzarono mettendo in mare una flotta che si pose tra Ostia e la foce del Tevere per scontrarsi con i pirati: le forze alleate, sotto la guida del console Cesario, figlio del Duca di Napoli, distrussero le navi nemiche.

A Napoli a questo Comandante è stata intitolata la strada che da Piazza Plebiscito porta al mare: via Cesario Console.

La sconfitta saracena rimase così viva nella memoria della Chiesa che, a distanza di secoli, Leone X incaricò Raffaello di affrescare le Stanze del Vaticano con la scena della battaglia di Ostia.

I Saraceni hanno devastato le coste campane e distrutto paesi come Cuma e Miseno che utilizzarono come base per compiere razzie nell’entroterra: si insediarono anche ad Agropoli, che influenzava il Cilento e a Traetto, vicino Minturno, sul Garigliano, da cui partivano le incursioni che travolsero le località lungo il fiume fino alle Abbazie di Montecassino e di San Vincenzo al Volturno e a tutto il basso Lazio.

A testimonianza di questa presenza, in provincia di Frosinone c’è il paese di San Biagio Saracinisco: altri paesi che li ricordano nel nome sono Castelsaraceno, vicino Potenza e Saracena, in Calabria.

In Campania particolarmente esposta agli attacchi dei pirati, per la sua ricchezza, fu Salerno che si scontrò due volte con i Saraceni: la prima, a fine ‘800, si concluse con la sconfitta dei pirati e fu un macello, tanto è vero che il Forte sotto cui si combattè è chiamato la Carnale, il carnaio, e la seconda nel corso dell’anno 1000, che ha avuto grande importanza per la presenza di uomini che avrebbero fatto la storia dell’Italia meridionale: i Normanni.

Si racconta che un gruppo di 40 pellegrini normanni tornava da Gerusalemme, dove era andato a pregare sul Santo Sepolcro, quando sulla via del ritorno si fermò in città e la trovò occupata dai Saraceni, che se ne erano impadroniti. I pellegrini non potevano accettare che i Cristiani dovessero essere soggiogati ai Musulmani, per cui si recarono dal Signore longobardo di Salerno e chiesero armi per scacciarli: spronati dall’esempio dei 40 pellegrini, abili guerrieri di origine vichinga che guidarono la rivolta, i cittadini si ribellarono e si ripresero la città.

I Salernitani, al momento della partenza dei Normanni, li onorarono con doni preziosi: arrivati nelle loro terre i Normanni magnificarono i luoghi che avevano visto e la ricchezza di quei posti e ciò spinse molti avventurieri a scendere verso le Terre del Sole che in pochi anni avrebbero conquistato, fondando un Regno in tutta l’Italia meridionale. Nel corso dei secoli sono sorte numerose leggende d’amore e di morte, drammatiche e crudeli, nei rapporti fra Cristiani e Saraceni, come quella che sarebbe avvenuta in Sicilia nel 1100: la storia delle Teste di Moro.

In quel tempo una bellissima fanciulla curava sul terrazzo le sue piante, quando un giorno si trovò a passare lì sotto un giovane Moro, che appena la vide se ne innamorò: la ragazza ricambiò lo sguardo ed i due diventarono amanti. L’idillio durò fino a quando il Moro disse alla fanciulla che quella sarebbe stata l’ultima notte d’amore, perché il giorno dopo si sarebbe imbarcato per tornare a casa da moglie e figli. La ragazza non disse nulla, ma durante la notte, approfittando del sonno dell’amante, gli tagliò in un sol colpo la testa: la svuotò del cervello, la mise sul terrazzo, mettendovi dentro una pianta di basilico, innaffiandola ogni giorno con le sue lacrime.

I vicini, ignari, pensarono che quel bel volto scuro esposto sul davanzale fosse un vaso di ceramica con fattezze umane ed allora, poiché l’idea piacque, cominciarono anche loro a modellare vasi di ceramica con facce maschili e femminili coronate da frutta e fiori. Da questa leggenda è nata la produzione di quei vasi che adornano giardini, terrazzi e case.

Boccaccio nel Decamerone ha scritto una storia quasi uguale, quella di Lisabetta messinese, e chissà se si è ispirato alla leggenda che può aver sentito nei suoi anni a Napoli oppure se sono stati i Siciliani ad aver modificato qualcosa del racconto.

Particolarmente tragica è la leggenda del Conte Umfredo dei Landolfi e del Principe Rajan: ancora una volta i Saraceni attaccarono Salerno dal mare, ma poiché dopo un anno di assedio i Salernitani erano ormai ridotti allo stremo ed i pirati anche essi non riuscivano a conquistarla, i Comandanti delle due schiere decisero di risolvere l’assedio con uno scontro fra un rappresentante cristiano ed uno musulmano. I due iniziarono il duello sotto le mura della città: Rajan colpiva con la scimitarra Umfredo che, a sua volta, lo feriva con la spada: i due si inseguivano, si fermavano, sanguinavano e ricominciavano a correre: così facendo si allontanavano da Salerno per finire lo scontro sulla spiaggia di Vietri sul Mare. Ormai il duello durava da ore ed erano entrambi feriti a morte con le camicie strappate, quando ecco che i due vedono sul petto dell’avversario lo stesso tatuaggio: Rajan emette un grido e riconosce in Umfredo il fratello che da piccolo era stato rapito da bambino e che aveva sempre cercato. Ormai i due sono in fin di vita per i colpi che si sono scambiati, ma si abbracciano e finiscono in mare dove si trasformano in due grossi scogli, quelli che si possono vedere dall’autostrada laggiù sul mare e che sono chiamati i Due Fratelli.

Le coste meridionali sono state ripetutamente tormentate dalle scorrerie delle orde saracene, per cui si rese necessario costruire delle torri di avvistamento: quelle costruite dagli Angioini erano cilindriche, quelle Aragonesi/Spagnole quadrate e più massicce. In genere ogni torre aveva un’altra torre a sinistra ed una a destra in maniera che in caso di allarme i fuochi accesi da una torre potessero essere visti dalla più vicina che la trasmetteva all’altra e così via. Erano numerosissime, ma non riuscivano molto spesso ad evitare i saccheggi da parte dei Saraceni e dei Turchi che colpivano con violenza inaudita come quella che costò la vita a più di 800 abitanti di Otranto, nel 1488, che rifiutarono di abiurare la fede cristiana per abbracciare quella musulmana, in cambio della vita.

Nella chiesa di Santa Caterina a Formiello, a Napoli, all’angolo fra San Giovanni a Carbonara e Porta Capuana, sono conservate 240 reliquie di questi martiri, che Papa Francesco, pochi anni fa, ha canonizzato, perché non hanno tradito la propria fede.

Su un altare della chiesa si trova un dipinto che ricorda il tragico evento: è raffigurato uno degli Otrantini cui è stata tagliata la testa per primo, che resta in piedi, dritto come una colonna, fino a che tutti i suoi concittadini cadono sotto la scure del carnefice, per stramazzare a terra solo dopo che è stato decapitato l’ultimo martire. La leggenda racconta che il carnefice, impressionato dalla fede di questi Cristiani si sia convertito all’istante e per questo messo a morte dai propri compagni.

Nel 1500 furono particolarmente violente e devastanti le incursioni turche in tutto il Mediterraneo e anche la Campania fu travolta dalla forza delle navi di Khai-en-Din, chiamato il Barbarossa, che saccheggiò molti paesi della costiera amalfitana, della Penisola sorrentina, delle isole del Golfo: a Capri si può ancora vedere il castello che conquistò, che è chiamato, appunto, castello Barbarossa.

Famoso è l’attacco che sferrò il 27 giugno 1544, quando distese la sua enorme flotta fra Salerno ed Amalfi per razziarle. Gli Amalfitani erano disperati, non si poteva resistere alla ferocia turca e quindi cominciarono a pregare il loro Santo Patrono, Sant’Andrea: il mare era calmo, il cielo sereno ed i Turchi erano pronti a sbarcare, quando il mare comincia a ribollire, nuvole tempestose appaiono all’orizzonte, e arriva una tempesta che travolge la flotta in tutto il golfo: le navi si disperdono o affondano e gli Amalfitani ringraziano Sant’Andrea per aver compiuto il miracolo. Ancora oggi il 27 giugno ad Amalfi si snoda per la città una processione di ringraziamento a memoria dell’evento.

Il Barbarossa tentò anche un’altra audace impresa, quando attaccò la costa laziale a Sperlonga per rapire, nel suo castello di Fondi, Giulia Gonzaga, una delle donne più belle e colte del Rinascimento, per farne dono al sultano Solimano I. La nobildonna fu avvertita in tempo e attraverso un tunnel sotterraneo fuggì dal castello, mentre i Turchi devastavano la zona e rapivano i cittadini.

Un analogo tentativo di rapimento per ottenere un forte riscatto fu messo in atto per catturare la Marchesa del Vasto, i Turchi sbarcarono a Mergellina, ma la Nobildonna fortunatamente non si trovava a palazzo, per cui arrabbiati saccheggiarono tutta la zona. Il Viceré di Napoli, dopo questa incursione, fece costruire un Torrione di difesa a Mergellina, la Torretta, che oggi non esiste più ma il cui nome è rimasto lì in fondo alla Riviera di Chiaia.

Il rapimento delle persone era volto ad ottenerne la liberazione dopo aver pagato il riscatto: le famiglie ricche, tramite mediatori berberi, pagavano le somme, mentre due Ordini religiosi, i Trinitari e i Mercedari si prodigavano per raccogliere elemosine volte a riscattare i prigionieri poveri. A Napoli all’inizio di via San Sebastiano, dopo Port’Alba, si trova la Chiesa della Redenzione dei Captivi o Santa Maria della Mercede e Sant’Alfonso de’ Liguori, presso la quale operava nel ’500 una congregazione nata per riscattare i cristiani imprigionati (captivi) dai Turchi.

La fantasia popolare ha molto spesso attribuito all’intervento divino la propria salvezza dalle incursioni barbaresche, come quella di Amalfi dovuta a Sant’Andrea, ma tanti altri paesi raccontano di storie analoghe come quelle avvenute a Positano e a Sorrento.

Duomo di Amalfi, Sant’ Andrea.

A Positano i predoni rubarono dalla Chiesa la sacra immagine di un quadro di una Madonna bizantina e se lo portarono a bordo della nave, allontanandosi verso il largo, quando all’improvviso si scatena una tempesta: la nave sta per affondare quando una voce che proviene dall’immagine della Madonna grida: Posa, posa. I pirati terrorizzati tornano verso la spiaggia, abbandonano il quadro e possono così riprendere il mare che si era calmato: i Positanesi recuperano il quadro e lì vicino costruiscono una Chiesa in cui viene conservato. Fino a qualche tempo fa, il 15 agosto, veniva rievocato lo sbarco dei Saraceni con uno spettacolo di 400 figuranti: oggi si svolge solo una grande processione per ricordare la Madonna.

Una delle mete preferite dai pirati per le loro incursioni sono stati i paesi della Penisola sorrentina (rapimenti, eccidi, saccheggi), Massa Lubrense e Sorrento in particolare ed in quest’ultima cittadina che a seguito di un tentativo di sbarco saraceno è nata la tradizione dei confetti della Domenica delle Palme.

Si racconta che in occasione della benedizione delle Palme tutta la popolazione fosse presente davanti alla Chiesa con i rami d’ulivo in mano, quando un grido avverte che navi saracene sono apparse all’orizzonte: i cittadini sono impauriti ed ecco che una tempesta fa affondare le navi nemiche. Un pescatore che era rimasto sulla spiaggia soccorre una schiava caduta in mare dopo l’affondamento della nave e la porta ferita dinanzi alla Chiesa: la popolazione aiuta la fanciulla che in poco tempo si riprende. Questa, grata per le attenzioni avute, dona al parroco l’unica cosa che possiede: un sacchettino che portava al collo con dentro dei confetti, dolcetti sconosciuti ai Sorrentini, ai quali insegnò l’arte di come farli e di come farne composizioni. Da allora è tradizione a Sorrento di benedire le composizioni di confetti, sostenute da anime di ferro e presentate in forma di mazzetti di fiori, di alberelli ed altro, insieme ai rami d’ulivo nel giorno della Domenica delle Palme.

Con la vittoria cristiana a Lepanto, nel 1572, viene quasi definitivamente fermata l’espansione turca nel Mediterraneo e diminuiscono le incursioni saracene, anche se continuano ad esserci come ricorda il bellissimo canto del ‘600 Michelammà: è nata mmiezo ‘o mare Michelammà Michelammà…li turche se nce vanno a reposare. Secondo gli studiosi le parole del canto descrivono l’isola d’Ischia.

Anche se interi secoli sono stati caratterizzati da invasioni musulmane, bisogna dire che la presenza araba è stata occasione di scambi commerciali (a Napoli fuori le mura di Piazza Mercato c’era il Campo del Moricino, dove venivano vendute merci e specialità arabe) e di conoscenze che sono presenti nella cultura e nella tradizione napoletana.

Alcune parole della lingua partenopea sono di origine araba: Zarro (pietra in cui si inciampa e quindi sbaglio); Funnaco (Vicolo chiuso e sporco); Bazzariota (da bazar, venditore ambulante); Tavuto (cassa) la bara.

Anche la gastronomia napoletana ha un debito con loro per la presenza di elementi della cucina orientale come la Scapece, la salsa all’aceto, la Cassata e soprattutto la Melanzana: si può vivere senza una buona parmigiana di melanzane?

Sergio Giaquinto, Giurista, già Dirigente Amministrativo dell’A.O. dei Colli, cultore di Storia e Archeologia

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