Napoli e Boccaccio

Facimmote, adunque, caro fratello assapere che lo primmo juorno de sto mese de decembre Machinti figliao e appe un bello figlio mascolo…  

Così, nel 1339, Giovanni Boccaccio, nella divertente Epistola napoletana, primo testo di letteratura dialettale in prosa, scrive in napoletano all’amico Franceschino De’ Bardi (che si trovava a Gaeta), per annunciargli la nascita del figlio, dimostrando di essere padrone della lingua dopo tanti anni di permanenza nella città partenopea.

Giovanni Boccaccio era arrivato a Napoli nel 1327, al tempo della dinastia angioina, appena quattordicenne e fu impiegato dal padre presso la filiale della Banca de’ Bardi, una potentissima famiglia di banchieri fiorentini, (Simone De’ Bardi sposò la Beatrice amata da Dante) che finanziava, insieme alle Banche dei Peruzzi e degli Acciaiuoli, i grandi Regni d’Europa fra i quali c’erano anche gli Angioini.

 Il Re Roberto, pur se economicamente mal ridotto, aveva un ruolo importante nella politica italiana e si considerava protettore delle scienze e delle arti; la sua Corte era frequentata da belle donne, nobili signori, mercanti, teologi, artisti, e per il giovane fiorentino, che lavorava per una Banca così importante per l’economia del Regno, fu facile entrare a farne parte.

Napoli, in quegli anni, era al massimo del suo splendore: gli Angioini avevano sconfitto gli Svevi nel 1266 e avevano conquistato il Regno del Sud: la Capitale fu trasferita da Palermo (60.000 abitanti) nella meno abitata città partenopea (30.000 abitanti).

Ci fu immediatamente un’esplosione di interventi per darle un’importanza europea e furono messe in campo tutte le energie per farla diventare un punto di riferimento politico e culturale.

Furono costruite, all’interno delle antiche mura del Centro storico, sovraffollato e soffocante, numerose chiese di stile gotico come San Lorenzo, Santa Chiara, San Domenico Maggiore, Donnaregina; chi invece usciva dalla Porta Petruccia ( che si trovava sotto piazza del Gesù), lasciava alle sue spalle il labirinto di vicoli e strade sporche della città greco-romana e trovava dinanzi a sé la vista che arrivava fino a Castel dell’Ovo con ampi spazi verdi, giardini, palazzi eleganti e al centro di questo panorama si ergeva (per distinguerlo dalla vecchia reggia di Castel Capuano, fino a pochi anni fa sede del Tribunale di Napoli), il Castel Nuovo chiamato popolarmente Maschio Angioino. Attorno alla Reggia, in quel piazzale dove si svolgevano tornei e giostre, cominciarono ad alzarsi i palazzi dei Nobili, il Regio Archivio, la Chiesa dell’Incoronata (sotto via Medina vicino la Questura) e si muoveva un flusso continuo di cavalieri, banchieri, mercanti, marinai sbarcati dalle navi del vicino porto, di imbroglioni e di sfaccendati.

Contemporaneamente si sviluppò, grazie allo incremento dell’attività commerciale e mercantile che andavano assumendo i traffici marittimi, tutta una zona che partiva dalla Chiesa del Carmine per arrivare fino al Porto: un gomitolo di strade e di vicoli stretti frequentati o abitati da forestieri, i cui nomi sono ancora presenti nella toponomastica cittadina: Rua Catalana, Piazza Francesi ,Vico dei Greci, Strada dei Fiorentini, Loggia dei Genovesi: questo mondo lo troveremo descritto in una bellissima  novella del Decamerone, quella di Andreuccio da Perugia.

Furono chiamati a Corte grandi pittori come Giotto ad affrescare in Santa Chiara e nella Cappella Palatina del Maschio Angioino e grandi scultori come Tino da Camaino, il poeta-giurista Cino da Pistoia, amico di Dante, oltre a bibliotecari e scienziati.

C’era la più antica Università statale al mondo (una sede si trovava nei locali di San Domenico Maggiore), famosa per l’insegnamento di Tommaso d’Aquino ed anche la Scuola Medica Salernitana, faro della Medicina medievale, ebbe un notevole impulso: in questo clima multidisciplinare si sviluppa la vocazione letteraria di Boccaccio dalla quale nasceranno tante storie che egli riporterà nelle sue opere grazie all’esperienza napoletana.

La Corte di Re Roberto è vivace, allegra, mondana e il giovane Boccaccio vive tutte le pulsazioni amorose della sua spensierata gioventù: avventure passeggere e versi dedicati a donne i cui nomi sono nascosti sotto pseudonimi: a Pampinea, la sua colomba bianca, a Abrotonia, il suo storno nero e a un’altra che chiamò il suo pappagallo verde, fino a che nel giorno del Sabato Santo del 1336 nella chiesa di San Lorenzo, gli apparve Fiammetta. Il cuore, racconta, cominciò a battergli forte forte, tutto il corpo vibrava e quando lo sguardo di lei incrociò il suo cominciò a tremare. Fiammetta è il nome dato ad una fanciulla che molti identificano come Maria d’Aquino, figlia naturale del Re Roberto.

Boccaccio aveva ventitre anni e questo amore fu narrato direttamente e indirettamente nelle sue opere napoletane come il Filocolo e il Filostrato e anche nel Decamerone e nell’Elegia di Donna Fiammetta. Quest’ultima opera ha una grande importanza in quanto è un romanzo in prosa in cui, per la prima volta, la donna narra direttamente alle donne, in prima persona, una sua vicenda sentimentale, liberandosi da quell’immagine di donna-oggetto della poesia trecentesca.

La vita scorre per lui in allegra brigata fra balli, divertimenti, musica, caccia, pesca e gite nei dintorni di Napoli, in compagnia del suo amico Niccolò Acciaiuoli, simpatico, vanitoso e ambizioso.

Napoli era una città spensierata, magnifica, piena di gente che voleva divertirsi, ma anche piena di vizi, per cui furono emessi editti per condannare i giovani lascivi che, dopo aver affascinate le fanciulle con i modi e le parole le rapivano, a volte consenzienti e altre no; si condannava la moda dei giovanotti che con i capelli incolti, barba e capelli lunghi e con vesti corte sopra al ginocchio cercavano di attirare l’attenzione delle ragazze e poi già c’era lo stalker!

Esiste, infatti, una lettera datata 22 giugno 1322, del Re Roberto in cui dice di aver ricevuto una supplica da Giovannella di Gennaro, sposata e di costumi onesti e morigerati, che viene infastidita dal notaio Giacobello Fusco che si è invaghito di lei. Con ogni mezzo la controlla giorno e notte, passa continuamente sotto le sue finestre facendole cantare le serenate e quando la incontra per strada la insulta e non ha paura di sputarle addosso. Come si può vedere non c’è nulla di nuovo sotto il sole.

Boccaccio ha la spensieratezza della sua età che lo porta a dimenticare gli impegni del bancario preferendo passare la maggior parte del suo tempo in comitiva, insieme a Fiammetta, già sposata, andando in gita nei Campi Flegrei, a Cuma, a Pozzuoli e a Baia, dove le donne diventano più disinibite, luogo di perdizione di cui il poeta romano Marziale diceva colei che vi arriva in veste di Penelope ne ripartiva trasformata in Elena.

Boccaccio vi banchettava con gli amici con i piatti più delicati e vini nobilissimi per vecchiaia, potenti non solo a risvegliar la dormiente Venere, ma di resuscitare qualsiasi uomo alla vita e poi saliva di nuovo in barca verso altri lidi a far baldoria.

Fiammetta è volubile e dopo un certo tempo ha un altro spasimante e abbandona Boccaccio. Intanto la crisi colpisce la Banca dei Bardi: Giovanni deve ridimensionare le spese e, quindi, lascia la vita brillante di Corte per rifugiarsi in un’abitazione più modesta frequentando donne di più bassa estrazione sociale del suo rione come Mariella Cacciapulce e Zita Cubitosa.

Dopo un po’, nel 1340, lascia Napoli a causa del tracollo economico della sua Banca e ritorna a Firenze dove scriverà il Decamerone che è pieno di novelle e personaggi di Napoli e dintorni.

Il poeta ha visitato e visto diverse città e luoghi della Campania e ha ascoltato storie avventurose, piccanti e tragiche, che racconterà nel suo Capolavoro, storie che si svolgono a Napoli, a Castellammare di Stabia, ad Ischia, a Procida, a Salerno, a Ravello.

Così descrive la costiera amalfitana nella novella di Landolfo Rufolo: Credesi che la marina da Reggio a Gaeta sia quasi la più dilettevole d’Italia, nella quale presso Salerno è una costa sopra ‘l mare riguardante, la quale gli abitanti chiamano Costa d’Amalfi, piena di piccole città, di giardini, di fontane e di uomini ricchi.

Uno di questi uomini ricchi è Landolfo Rufolo (quello della famosa Villa Rufolo dove si tengono i concerti d’estate a Ravello) che, partito con grandi mercanzie per l’Oriente per accrescere le sue fortune, e diventato povero a Cipro, si arricchì depredando le navi turche; fu fatto prigioniero, poi, dai Genovesi, e naufragò con le loro navi ma, trovato un tesoro, tornò a Ravello più ricco di prima.

La più nota fra le novelle che si svolgono a Napoli è certamente quella di Andreuccio da Perugia, un giovane venuto per comprare cavalli e che, derubato da una bellissima imbrogliona, nella zona del Malpertugio, malfamata e lurida, vicino al porto (splendida la descrizione di questi luoghi), disperato, insieme a dei ladri, va a violare la tomba dell’arcivescovo di Napoli, cardinale Filippo Minutolo, morto in quella giornata e sepolto nella cappella di famiglia, per rubare i gioielli delle sue vesti. Il monumento sepolcrale trecentesco del Cardinale esiste tuttora e lo si può ammirare nel Duomo di Napoli, nella cappella dei Capece Minutolo a destra dell’altare maggiore.

Ricordando la novella possiamo immaginare tutta la scena con Andreuccio che, alzato il coperchio, si cala nel sepolcro quando all’improvviso i complici, sentita la presenza di altre persone, fuggono facendo cadere la lastra tombale che si chiude sopra di lui, che resta intrappolato vicino al morto. Quelle persone erano altri ladri venuti per rubare anche loro i gioielli: appena uno di questi, sollevato il coperchio, mette la gamba nella tomba, Andreuccio gliela tira, il ladro fugge urlando dal terrore dal sepolcro aperto e così se ne esce con il prezioso anello di rubini dell’arcivescovo per tornare subito a Perugia.

Rientrato a Firenze, Boccaccio, dopo anni, nel 1362 volle tornare a Napoli, sperando di ottenere un incarico presso la Corte, contando sull’amicizia e la protezione del suo compagno di divertimenti Niccolò Acciaiuoli, che grazie ai suoi intrighi era diventato Gran Siniscalco del Regno di Napoli, settima carica per importanza del Regno.

Sognava onore e gloria, era un poeta e scrittore famoso, gli spettava una vita brillante; e invece fu disilluso, come racconta nella lettera inviata all’amico Francesco Nelli: gli dettero una stanzetta disadorna con una nebbia di ragnatele, per tappeto solo la polvere, un materasso pieno di erba secca e una coperta puzzolente e nessun cuscino.

I pasti gli venivano offerti su una tavola sporca, con bicchieri sbreccati e da mangiare gli servivano carne di bovi morti di vecchiaia o di malattia, pesciolini microscopici e vini amari e acidi, che nemmeno con l’acqua perdevano i loro difetti, il tutto in compagnia di commensali affamati e scossi da tosse.

Deluso lasciò Napoli per ritornarvi nel 1370: fu ricevuto a Corte dalla Regina Giovanna con tutti gli onori, ma ormai la città che aveva tanto amato esisteva solo nei suoi ricordi, molti compagni della sua giovinezza erano morti e lui si sentiva stanco, malandato e così partì per non tornarvi più.

Sergio Giaquinto, Giurista, già Dirigente Amministrativo dell’A.O. dei Colli, cultore di Storia e Archeologia

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