Napoli è una città fra le più antiche esistenti al mondo, oltre il tempo della storia (che le attribuisce la derivazione greca intorno all’ottavo secolo a.c.), poiché affonda le sue radici nel mistero di un leggendario popolo sotterraneo: i Cimmeri.
Un popolo che non ha lasciato tracce di cui si favoleggia l’esistenza grazie ai riferimenti di autori greci: gente che avrebbe scavato un labirinto di grotte sotto Napoli e sotto i Campi Flegrei, un popolo di Ciclopi che sarebbe vissuto sempre sottoterra, forse perché terrorizzato dalle continue eruzioni vulcaniche del territorio, impegnato a lavorare metalli e tufo, e che accompagnava i fedeli, dietro compenso, ad ascoltare l’oracolo della Sibilla Cimmeria che precede nel tempo quella Cumana.
Anche questa viveva nell’antro buio dal quale faceva risuonare la voce del Dio Apollo che si impossessava di lei nel momento dell’oracolo e scriveva le parole del vaticinio su foglie di palma che affidava al vento. Si racconta che un soldato, partendo per la guerra, le abbia chiesto di conoscere il suo destino ed abbia ottenuto risposta raccogliendo le foglie: il soldato lesse la frase
“Ibis redibis non morieris in bello”
ovvero andrai ritornerai non morirai in battaglia, ma si accorse che l’interpretazione poteva essere diversa mettendo la foglia del “non” davanti a quella di “ritornerai”, “andrai non ritornerai morirai in battaglia”, il che non era benaugurante. Questo linguaggio criptico è poi stato utilizzato dal mondo greco-romano fino ad oggi da fattucchiere, megere, zingare lettrici della mano, in modo così sottile da prestarsi ad ogni interpretazione.

La tradizione del mistero e della magia attraversa il tempo e persino il poeta Virgilio, a Napoli (dove ha soggiornato, scritto alcune opere ed è sepolto), diventerà nell’immaginario collettivo un Mago, in quel Medio-Evo meridionale in cui attorno alla Corte di Federico II di Svevia si muovevano astrologi, matematici, filosofi, medici: una miscela di cultura latina, greca ed araba tesa a scoprire, in un’atmosfera esoterica, i misteri della natura.
La fama di cui il poeta godette nel Medio-evo per la sua cultura, il Palazzo degli Spiriti a Marechiaro (un edificio romano in cui pescatori analfabeti raccontavano di udire di notte declamare da una figura luminosa con in capo l’alloro e la cetra in mano versi in latino che riferiti agli eruditi risultavano essere versi dell’Eneide), il suo sepolcro a Piedigrotta, vicino alla Crypta napoletana (quella galleria romana ,chiusa da decenni che attraversa la collina di Posillipo, da lui fatta scavare da esseri sovrannaturali al suo servizio) sono l’origine di leggende da parte di scrittori e cronisti medievali, che trasformarono Virgilio da sapiente Maestro a conoscitore dei segreti della natura.
Sono diverse le leggende che spiegano la sua conoscenza dell’arcano e il possesso di arti magiche: una racconta che trovò nel suo orto una bottiglia in cui erano rinchiusi dodici diavoli, che gli promisero di insegnargli la magia se li avesse liberati. Il poeta accettò e, appresi tutti i segreti, li liberò.
Un’altra vuole che egli trovasse uno Spirito, chiuso in una bottiglia, che in cambio della libertà, gli promise di indicargli dove fosse nascosto il libro magico di Salomone. Liberatolo, Virgilio vide crescere lo Spirito a dismisura: era talmente alto, grande e vendicativo che poteva costituire un pericolo per gli uomini, per cui lo sfidò dicendogli che ormai grande come era non poteva più tornare nella bottiglia; lo Spirito gigante gli rise in faccia e fattosi piccolo piccolo rientrò nella fiaschetta. Virgilio, immediatamente chiuse la bottiglia e lo imprigionò nuovamente (un racconto quasi uguale si trova nelle Mille e una notte, dove però protagonista è un pescatore).
Sono tante le leggende che interessano la figura magica di Virgilio, in particolare si ricordano quella di Castel dell’Ovo e quella della Mosca d’oro.

La prima racconta che Virgilio abbia messo, a protezione della città, un uovo in una bottiglia di cristallo, nascondendolo nelle viscere del castello: finché l’uovo fosse rimasto intatto, la città sarebbe rimasta indenne da ogni attacco dei nemici. Non dovette, però, essere un talismano efficace se pensiamo a quante dinastie si sono succedute nel Governo del Regno di Napoli.
La seconda narra che il poeta chiese al nipote dell’imperatore Augusto, Marcello (che si trovava a Napoli), appassionato della caccia agli uccelli, se preferisse un uccello col quale catturare tutti gli uccelli oppure una mosca che eliminasse tutte le fastidiose mosche che provenivano dalle paludi vicino Napoli: Marcello scelse una mosca che liberasse la città da tale piaga. Virgilio creò, allora, ricorrendo ad arti alchemiche, una mosca d’oro, grossa come una rana, che fu posta prima su una porta della città, poi mano mano sui vari castelli cittadini fino a che la grande mosca le allontanò tutte. Un giorno, non si sa come, la mosca d’oro scomparve dal suo ultimo castello e le mosche tornarono.
Napoli città porosa, scavata su labirinti di grotte, cunicoli, gallerie, caverne, catacombe, antichi acquedotti greci, romani, medievali, borbonici, è una città che galleggia sopra una città, un mondo sotterraneo, ricco di cisterne d’acqua, della cui manutenzione erano incaricati “i pozzari”, i veri padroni del sottosuolo della città.
Questi giravano nelle gallerie, lavorando con lucerne ad olio che illuminavano la loro opera per far arrivare attraverso sistemi idraulici l’acqua nei pozzi dei palazzi, chiedendo “mance” ai proprietari per aumentarne la quantità a disposizione o anche per la pulizia dei pozzi stessi. Questi “operai” erano piccolini per poter muoversi fra gli stretti marciapiedi degli acquedotti e per pulire i pozzi; erano neri per la sporcizia che c’era lì sotto e per ripararsi dal freddo e dall’umidità portavano in testa un cappuccio, così furono scambiati per spiritelli. Il loro aspetto fece nascere la leggenda del “munaciello”, per la somiglianza dell’abito a quello del saio di un fraticello: uno spiritello beffardo capace di essere generoso o dispettoso.
Si raccontava che se avesse preso in simpatia una famiglia questa trovasse, a volte, in casa, soldi, gioielli e anche roba da mangiare, mentre invece se la famiglia gli era antipatica scomparivano molti oggetti di casa.
Probabilmente, poiché aveva la possibilità di salire attraverso i pozzi nei palazzi, il “munaciello” si incontrava con qualche signora “compiacente”, che veniva ricompensata con preziosi, denaro o cibo che aveva rubato nell’appartamento della famiglia antipatica. La signora per giustificare al marito i doni trovati sul comodino dava merito allo spiritello che proteggeva la casa, mentre nella casa dei derubati si accusava il “munaciello” di aver fatto sparire la roba. Ancora oggi quando non si trova in casa un oggetto si dice che è stato lo spiritello a nasconderlo, per cui lo si invoca affinché restituisca l’oggetto: se si è simpatici l’oggetto spunterà fuori, altrimenti non lo si troverà mai.
Il “munaciello”, nella fantasia popolare, se decide di dare fastidio alla famiglia, oltre che a far scomparire le cose, comincia a fare rumori misteriosi, a fare piccoli dispetti come far cadere i piatti per terra dalle mani della padrona di casa o a spalancare le finestre quando fuori c’è il diluvio. Si racconta che una famiglia, disperata per i continui scherzi dello spiritello, abbia cambiato casa per liberarsi dei suoi giochetti, ma che arrivata nel nuovo appartamento abbia visto seduto su una valigia il “munaciello” che diceva «finalmente abbiamo cambiato casa, mi ero stancato di quella vecchia!».
Se ’o munaciello è lo spiritello dispettoso, la bella ‘Mbriana è, invece, la fata buona, la protettrice della casa, l’angelo del focolare, tanto rispettata che quando gli antichi napoletani entravano in casa o ne uscivano dicevano «ti saluto Bella’Mbriana», perché chi amava quella famiglia era sicuramente bella, mentre ‘Mbriana viene dalla parola Meridiana (dal latino meridies, mezzogiorno), cioè il simbolo della luminosità, del calore solare che riscalda. Quando si aveva bisogno di un aiuto la si invocava: «Bella ‘Mbriana scetate» e a tavola c’era sempre una sedia libera per lei; infatti poteva arrivare all’improvviso e se non avesse trovato posto erano guai per quella casa.
Fra tanti misteri di questa città che viaggia fra sacro e profano, fra il reale e il sovrannaturale, fra il culto delle teste di morto delle Fontanelle e dei “sangui” che si sciolgono, recentemente è entrata a far parte di questo campionario di “meraviglie” anche la presunta tomba di Dracula.
Dracula sarebbe sepolto nel complesso di Santa Maria La Nova, nei pressi di via Medina, nella tomba della famiglia Ferrillo. È un racconto privo di fondatezza storica ma che ad ogni modo è piacevole narrare: al tempo in cui i Turchi Ottomani premevano sui Paesi ai confini orientali d’Europa, ci fu una fuga di molte nobili famiglie da quelle Terre e fra questi profughi c’era la piccola Maria Balsa, che sarebbe una delle figlie del principe Vlad III di Valacchia, noto a noi con il nome di Dracula.
La bambina trovò ospitalità presso la Corte di Ferdinando d’Aragona e più tardi sposò il nobile Giacomo Alfonso Ferrillo con il quale andò a vivere ad Acerenza in Lucania nei possedimenti di famiglia. Un particolare che ha attirato l’attenzione degli studiosi è quello del grande dragone che si staglia sulla tomba napoletana dei Ferrillo: Vlad apparteneva all’Ordine del Dragone, di cui facevano parte i nobili più importanti di quell’epoca. Nella Cattedrale di Acerenza, protetta con generosità da Maria Balsa, è rappresentato, in un dipinto nella cripta della chiesa, un grande dragone; un altro, poi, lo si trova in una scultura all’ingresso della Cattedrale, intento a succhiare il collo di un uomo e una donna, e infine un altro nello stemma posto sulla facciata della chiesa.
Maria Balsa avrebbe trasferito, di nascosto, le ossa del padre, che certo non era un personaggio raccomandabile. “Vlad l’impalatore” era chiamato per la sua ferocia, portandole dal luogo segreto dove erano state sepolte, nella tomba di famiglia a Napoli, perpetuandone la memoria con l’immagine criptica del dragone.
Se questa è una curiosa storia che ha per protagonista Dracula, è opportuno ricordare che a metà ottocento, in un romanzo inglese, un altro vampiro, Varney, viene a morire a Napoli gettandosi nel Vesuvio. Perché nel Vesuvio? Perché Napoli era una delle mete del “Grand Tour” quel viaggio culturale fatto nel ‘700 e nell’800 dagli stranieri per accrescere le loro conoscenze di paesi ricchi d’arte, di storia e di bellezze naturali e quindi luogo molto conosciuto in Europa.
Sempre per il tema dei romanzi fantastici ricordo che Mary Wollenstonecraft, moglie del poeta Shelley, nel 1816 scrisse il romanzo “Frankenstein” (lo scienziato che creò il mostro) in un clima piovoso e freddo in una villa sul lago di Ginevra durante quello che è stato chiamato “Anno senza estate”. Il cambiamento climatico fu originato dalle polveri proiettate nell’atmosfera da alcune eruzioni vulcaniche che rendendo difficoltoso l’arrivo dei raggi solari sulla Terra, provocarono un abbassamento della temperatura globale e di conseguenza una grave crisi alimentare ed una estate molto fredda nei paesi del Nord America e dell’Europa.
La Shelley verrà, con il marito, al calore di Napoli a fine anno 1818, dove si tratterrà per qualche mese (abiteranno vicino alla Riviera di Chiaia) e in una successiva edizione del suo romanzo farà dire al dottor Frankenstein il nome della città in cui è nato: Napoli!
La città partenopea affascinava per la sua vivacità gli stranieri e molti anglo-sassoni, per motivi di lavoro, vi si stabilirono e fra questi la famiglia di Bram Stoker, autore del famosissimo romanzo “Dracula”, il vampiro la cui storia è stata più volte trasportata sugli schermi cinematografici.

Stoker è stato a Napoli (il padre morì a Cava dei Tirreni) ed ha scritto alcuni appunti sulla città. Egli avrebbe anche compiuto un viaggio in treno da Napoli a Foggia e secondo un’audace interpretazione dello studioso lucano, l’avvocato Glinni, l’atmosfera cupa delle foreste e delle montagne della Transilvania (dove Stoker non è mai stato), presenti nel suo romanzo, sarebbero state ispirate dai paesaggi della Basilicata. Lo studioso afferma, inoltre, che uno dei personaggi del romanzo, nel raccontare dove avesse incontrato Dracula menziona specificamente Acheruntia, nel senso di farfalla a testa di morto appartenente alle sfingidi, ed a questo punto basta verificare la lastra tombale di Napoli dove compaiono due sfingi, con al centro una testa di morto, il tutto a forma di farfalla. E così da Acheruntia, l’originale nome greco di Acerenza, siamo tornati a Napoli. Misteri.

Sergio Giaquinto, Giurista, già Dirigente Amministrativo dell’A.O. dei Colli, cultore di Storia e Archeologia