Da dove uscirono tante pastiere e casatielli? Donde gli stufati e le polpette? Donde maccheroni e gravaiuoli che poteva saziare un esercito intero?.
Così Giovan Battista Basile descrive nel racconto La Gatta Cenerentola, tratto da Lo Cunto de li cunti, capolavoro della letteratura favolistica seicentesca, il banchetto che ha imbandito il Sovrano per trovare la sconosciuta che vuole sposare e che fuggendo dal ballo ha perduto la pianella.
Maccheroni e ravioli sono un lusso reale che però per il popolo napoletano non erano ancora il cibo più comune. I Napoletani, infatti, nel XVII secolo erano chiamati Mangiafoglie, in quanto la cucina era a base soprattutto di verdure, prodotti economici per il popolo che la natura della Campania Felix offriva generosamente e che per rendere più saporiti tuffavano in un piatto che è il trionfo della cucina partenopea, la minestra maritata, derivata dalla olla podrida spagnola: un brodo grasso ricco di varie qualità di carni e salumi e tante verdure.
Dovettero passare quasi due secoli prima che i Napoletani diventassero anche Mangiamaccheroni appellativo che all’epoca era attribuito ai Siciliani.
In verità la pasta era già conosciuta dai Greci prima e dai Romani poi, ma si trattava di pasta fresca, la lagana, dischi larghi e sottili a basa di farina e acqua, cotti prima nell’acqua e poi fritti nell’olio come sottili focacce. In qualche caso venivano tagliate a strisce ed accoppiate con le zuppe di legumi. Orazio parla nelle Satire del suo piatto preferito: …quindi me ne torno a casa al mio piatto di ceci, porri e lagane.
Furono, però, gli Arabi a inventare in Sicilia i maccheroni di pasta essiccata che asciugati al sole potevano essere facilmente trasportati e caricati sulle navi per raggiungere i porti del Mediterraneo. In epoca normanna, nell’XI secolo, vicino Palermo c’era il paese di Trabia dove si fabbricavano strisce di pasta, che in arabo chiamavano ytria, nome ancora utilizzato in Puglia in un piatto leccese, ciceri e tria.
Maccherone è il nome più ampio da cui deriveranno tutti gli altri formati di pasta: l’etimologia della parola è incerta, ma io scelgo quella di origine greca makarios ovvero beato, che bella parola!
La pasta si diffuse rapidamente e la produzione si sviluppò in particolare in Liguria e Sardegna ed era così conosciuta che una delle più antiche tracce, poco dopo il Mille, si trova in un Codice della potente Abbazia di Cava de’ Tirreni dove viene ricordato un tal Mackarone, probabilmente un personaggio un po’ sciocco.
In questo periodo i maccheroni vengono conditi con lo zucchero e, anche nei secoli successivi, venivano serviti dopo il pranzo e offerti, come avvenne durante il Carnevale del 1524 al Duca di Ferrara Ercole d’Este, maccheroni napoletani di pasta reale fritti con mele et zuccaro sopra. Anche in un pranzo del 1531, in onore del Duca di Chartres, vennero preparati maccheroni alla napoletana cotti nel latte e con butirro et cannella, zuccaro e formaggio sopra.
A Napoli la pasta è ben conosciuta tanto è vero che nel ‘500 nasce in città il primo Statuto della Corporazione dei Vermicellai italiani, ma non riesce, però, a raggiungere tutti gli strati sociali, anche per il costo elevato della farina.

Napoli arriva più tardi di altre Regioni come Sardegna e Liguria nella produzione industriale della pasta, ma diventerà la prima nell’800 per quantità e qualità grazie ai pastifici di Amalfi, Gragnano, Torre Annunziata favorite dall’eccellenza delle condizioni climatiche che permettono ai vari tipi di pasta di asciugarsi al sole, all’abbondanza delle acque e alla mitezza dei venti.
La descrizione di questo mondo la si può trovare nel bel romanzo di Maria Orsini Natale: Francesca e Nunziata (da cui è stato tratto il film con Sophia Loren), che racconta la storia di una famiglia di pastai di fine ‘800.
Prima dell’avvento delle apparecchiature industriali la semola era impastata con la forza dei piedi, in vasche di pietra, dagli operai che accompagnavano il lavoro con il canto: quando Ferdinando II vide come veniva effettuata l’operazione rimase sconvolto da quel metodo antigienico ed ordinò all’Ingegnere Cesare Spadaccini di fabbricare un Uomo di bronzo, un automa insomma, che potesse sostituire quel tipo di manodopera, provvedendo all’impasto: Spadaccini riuscì a costruire questa specie di Robot ma l’esperimento non ebbe seguito forse per i costi troppo elevati per la costruzione di diversi Uomini di bronzo.
Il debito che la cucina napoletana ha con la scoperta dell’America è enorme, infatti grazie ai prodotti scoperti in quel Continente ha potuto arricchirsi di meravigliosi alimenti che hanno rivoluzionato la sua gastronomia: i fagioli (esistevano sì in Europa già prima del viaggio di Colombo, ma erano di gusto del tutto differente), la patata, i peperoni, i peperoncini, le zucche e soprattutto il pomodoro che sconvolgerà totalmente la gastronomia napoletana.
Nasce così la pasta mischiata: pasta e patate, pasta e zucca e pasta e fagioli, rigorosamente riposata, un piatto in cui si va alla caccia golosa del fagiolo che si è infilato all’interno dello zito, uno dei diversi formati che compongono la pasta mischiata, in cui sono mescolati pezzettini di pasta di vari tipi, residui minuscoli di maccheroni frantumati, chiamati menuzzaglia, messi da parte dalle brave mamme per non sprecare niente quando la pasta viene spezzata a mano.
Cucina povera, di recupero, non si deve sprecare nulla ed infatti un’altra invenzione è la frittata di maccheroni, quello che rimaneva della pasta veniva arricchito da uova, salame, formaggio e pomodoro, che ancora oggi ci accompagna nelle gite fuori città.
Fino all’800 il venditore di pasta, il maccaronaro, vendeva per strada i maccheroni (non tutti i bassi disponevano di un posto dove cucinare perché l’ambiente piccolo avrebbe riempito di fumo spazi angusti) solo lessi con un pizzico di pecorino e magari un po’ di pepe: l’immagine delle stampe popolari che rappresentano i Napoletani che mangiano i vermicelli, calandoli dall’alto nella bocca aperta, non è veritiera, provate infatti a mangiarli come descritto, vi colerebbe tutto in faccia.

I Napoletani li prendevano, invece, con tre dita al posto della forchetta, prelevandoli dal piatto e li portavano all’altezza della bocca e poi con il dito medio ve li introducevano facendo un bel risucchio per ingurgitarli; un piatto costava due centesimi, ma quando il pomodoro entrò trionfante nelle abitudini partenopee, si poteva chiedere il tre Garibaldi, cioè lo stesso piatto guarnito col pomodoro, con un costo maggiorato di un centesimo, in omaggio alle camicie rosse.
Il pomodoro quando arrivò in Europa fu considerato una pianta ornamentale non adatta al consumo, ma quando i suoi semi furono sparsi nel terreno vulcanico della piana di San Marzano verso fine ‘700 e trattati con nuove tecniche, esplosero in quel colore rosso che lo contraddistingue ed entra a far parte della storia della cucina, dando fantasia ai piatti di un popolo povero, che aveva per compagna la miseria.
Ogni giorno in una città di centinaia di migliaia di abitanti si lottava per sfamarsi e c’era un modo di dire Roba ‘e mangiatorio, nun se porta in confessorio, volendo intendere che i peccati di gola non si raccontano in confessione, perché il cibo è sì un piacere, ma è anche una necessità.
Ferdinando IV era un Re molto amato dal popolo, era il primo Re Borbone nato a Napoli, viveva in mezzo a loro, ne condivideva l’allegria nelle osterie e nelle pizzerie, si vestiva da pescatore per vendere il pesce a Mergellina, e mangiava avidamente i vermicelli con le mani.
Sua moglie, la terribile Maria Carolina d’Austria, mal tollerava la volgarità e non sopportava che il suo regale consorte mangiasse la pasta con le mani persino durante le rappresentazioni degli spettacoli al San Carlo. Fu dato incarico allora al ciambellano di Corte Gennaro Spadaccini di trovare una soluzione e questi inventò la forchetta, quella a quattro punte arrotondate che usiamo ancora oggi, che permette di arrotolare la pasta correttamente e facilmente. Una grande invenzione napoletana a beneficio dell’umanità!
La Regina non amava la cucina napoletana, fatta di sapori decisi, per cui si rivolse alla sorella, la Regina di Francia Maria Antonietta, affinché le mandasse cuochi francesi autori di cibi più raffinati rispetto a quelli partenopei: arrivarono così i Monzù (monsieur, rispettosamente i signori), che introdussero piatti e cibi sconosciuti a Napoli: il ragout, la besciamella, il sartù, i crocchè, il gattò, lo sciù, il babà ecc., che entreranno a far parte della tradizione culinaria napoletana.
In un primo momento questa cucina era presa in giro dal popolo, abituato a sapori diversi, forti, e infatti la besciamella, la sauce, la salsa ricca di burro, latte e formaggio, veniva indicata con senso di disgusto: e sauce, veniva storpiata in dialetto in sosa, una zoza, una schifezza insomma.
E si cantava una filastrocca: Monzù, monzù, è fernuta ‘a zoccola dint’o raù,’a padrona n’a vò cchiù, magnatella tutta tu cioè la salsa era diventata scura e quindi immangiabile.
Ogni famiglia aristocratica voleva i suoi Monzù, per cui la cucina francese entrò in tutte le case nobiliari: col tempo la cucina partenopea assorbì quanto di buono avevano portato i Monzù, sostituiti poi da cuochi napoletani, che avevano apprezzato i nuovi gusti adeguandoli al palato dei Napoletani, come ad esempio il Ragù.
Sua Maestà il Ragù napoletano non è quello introdotto dai Monzù, (il ragout, che in francese vuol dire risvegliare l’appetito, era per loro uno stufato di carne) ma è un monumento al gusto, al sapore, all’olfatto, quel profumo di carni di vitello, di maiale, di sugna, che si spargeva per tutta la casa, quella salsa che pippiava lentamente per sei-sette ore sul fuoco e che ti portava a immergere, di nascosto, un pezzettino di pane nel sugo che maturava: capivi che era domenica, era festa.
Una preparazione così lunga che prende nome di Ragù del guardaporte, cioè quella salsa che il portiere del palazzo metteva sulla fornacella e che cuoceva per tutto il suo orario di servizio, osservandola di continuo fino alla sua giusta cottura.
Il matrimonio perfetto del ragù è quello con gli ziti, il cui nome deriva dalla zita, cioè la sposa perché li si preparava il giorno delle sue nozze: una delizia ricoperta di formaggio e pezzetti di carne, un connubio ideale, tanto è vero che a Napoli per indicare una situazione che sconvolge le regole si dice che è successo il contrario: è ghiuta ‘a carne ‘a sotto e i maccarune ‘a coppa.
Quando durante il Fascismo si decise di italianizzare le parole straniere e cocktail si chiamò Arlecchino, croissant diventò cornetto e sandwich fu ribattezzato tramezzino da D’Annunzio. Anche il ragout cambiò nome e si chiamò, orribilmente, ragutto!
Giacomo Leopardi rimproverava ai Napoletani di amare troppo la pasta:
…tutta in mio danno s’ama Napoli a gara alla difesa de’ maccheroni suoi; ch’ai maccheroni anteposto il morir troppo ti pesa.
Un napoletano gli rispose:
…ma se tu avessi amato i maccheroni più de’ libri, che fanno l’umor negro, non avresti patito aspri malanni.
Rossini, invece, li amava tanto che quando viveva a Parigi cercava sempre di procurarsi dei maccheroni napoletani: un amico lo accompagnò da un negoziante che gliene mostrò alcuni, il musicista li guardò e disse che non erano maccheroni napoletani; il negoziante insistette ma Rossini andò via. L’amico disse al negoziante che quel signore era Rossini, al che il negoziante rispose:
Non lo conoscevo, ma se s’intende di musica come di maccheroni, deve scrivere proprio bella roba!.
Filippo Maria Marinetti, fondatore del Futurismo, che proponeva anche una cucina futurista, gridava provocatoriamente “Aboliamo la pasta asciutta, assurda religione gastronomica italiana”, responsabile di generare inattività e fiacchezza, ma fu sorpreso una sera in un ristorante di Milano a mangiare pasta per cui gli dedicarono questi versi: Marinetti dice Basta/ Messa al bando sia la pasta/ Poi si scopre Marinetti/ che divora gli spaghetti.
E’ vero, per i napoletani la pasta è una religione, non vi rinunciano mai, persino quando dopo una lauta cena a casa di amici e dopo le chiacchiere di rito, la padrona di casa propone verso mezzanotte:
Ci facciamo due spaghetti aglio e olio?. Applausi.
Se c’è una cosa della pubblicità (fra le tante) che mi infastidisce quando in tv trasmettono la pubblicità di una pasta, è l’assoluto lindore in cui si svolge lo spot: uno sfondo verde con alberi e giardino, un appartamento di lusso, case da signori, la massaia vestita come se andasse a fare shopping, atmosfera lontana dalla caotica realtà quotidiana della preparazione di un piatto in cucina: l’attore/attrice cala gli spaghetti, senza che sul tavolo si veda una goccia d’olio o una macchia di sugo, né si vedono una padella unta, un grembiule, un forchettone, né si sente il tintinnio delle posate: è tutto pulito, immacolato, asettico, ma fatemi il piacere!.
La pasta è presente nella nostra cultura: al cinema nella scena di Miseria e nobiltà, quando Totò balla sul tavolo con gli spaghetti in mano o nella tavolata finale di Maccheroni di Ettore Scola (certo è curioso che un film con il titolo Maccheroni abbia per regista Scola), girato a Napoli, con Mastroianni e Jack Lemmon; nella canzone Guì, guì, in cui imitando il francese si canta Me piacene ‘e maccaron! guì, guì, guì, guì, Me piace pasta e ffasul! guì, guì, guì, guì, Evviva Napule e Parì…; persino sul Presepe settecentesco, in cui accanto alle scene sacre si muove un mondo popolare pieno di trattorie in cui gli osti presentano i loro piatti ai clienti ed anche nella poesia di Eduardo De Filippo:
…tu che dice? Chist’è rraù? Io m’a mangio pe’magnà. M’a faje dicere ‘na parola? Chesta è carne c’a pummarola.

I maccheroni per noi sono religione e filosofia, ci accompagnano sempre e bene come ha scritto Eduardo Nicolardi nella sua poesia Il testamento:
Quanno mor’io chiagniteme ‘nu quarto d’ora e basta/Che m’atterrate all’unnece? Salute e bene/ e doie menate a pasta.

Sergio Giaquinto, Giurista, già Dirigente Amministrativo della A.O. dei Colli, cultore di Storia e Archeologia.