Nell’immaginario collettivo la prima figura che ci viene in mente,quando si parla di Sirene (forse anche per colpa di Andersen e della sua sirenetta), è quella di una bella creatura metà fanciulla e metà pesce, immagine romantica che però non corrisponde a quella descritta nel mito originario che le rappresenta con il corpo per metà di donna e per metà di uccello!
Secondo la mitologia erano compagne di giochi di Persefone, figlia della Dea Demetra, che fu rapita da Ade e portata giù da lui agli Inferi per farne la sua regina. La disperazione di Demetra per il rapimento della figlia fu tremenda: la dea volle punire le Sirene che non avevano vegliato sulla figlia ed impedito il suo rapimento e le trasformò in creature metà donne e metà uccello, donandole, in compenso, una voce dolce e melodiosa.
Sono compagne di Persefone, Angeli della morte e guidano i defunti all’ultima dimora, perciò gli antichi collocavano statue delle sirene sulle tombe: esse avevano il compito di consolare le anime dei morti accompagnandole, con il loro dolce canto nell’Aldilà.
La prima a parlare di loro nel XII libro dell’Odissea è la Maga Circe: questa avverte Ulisse che, tornando verso casa, arriverà ad una terra abitata dalle Sirene, che sedendo in un bel prato circondate da ossa umane di corpi putrefatti e di cumuli di pelli marcite, ammaliano i marinai con il fascino della voce e fanno dimenticare loro la sposa e i figli. Ulisse potrà superare il pericolo tappando con la cera le orecchie dei compagni, e se vorrà ascoltare la voce tentatrice delle Sirene dovrà farsi legare all’albero della nave con forti corde che lo trattengano.

Con la sua nave Ulisse arriva finalmente a quel gruppo di isolotti di fronte Positano, le Sirenuse, più conosciute oggi con il nome di Li Galli, dove incontra quelle creature mostruose che seducono i marinai con la voce adescatrice cantando che di loro conoscono tutto e che “non avvien su tutta la delle vite serbatrice terra nulla che ignoto o scuro a noi rimanga” : sanno tutto ciò che avviene. Le Sirene non prevedono il futuro ma incantano i naviganti facendogli credere che possono soddisfare la sete di conoscenza, che è propria dell’uomo, scatenando in lui la voglia di sapere: un istinto naturale che spinge i marinai, attirati dal loro canto suadente, a gettarsi in mare nuotando verso di loro per finire annegati e divorati.
Ulisse, simbolo dell’uomo che cerca, quello cui Dante fa dire
“fatti non foste a viver come bruti ma per seguir vertute e conoscenza”
impazzisce al soave suono della loro voce, vorrebbe sapere, domandare, avere risposte, ma non può spezzare le corde e la nave scivola via verso la salvezza.
Omero non ci dice il numero delle Sirene né il loro nome: sarà Licofrone, un poeta greco del terzo secolo a.c. nella sua opera “Alessandra” (sinonimo greco del nome della figlia di Priamo, Cassandra) a darci i loro nomi: Partenope (la vergine), Leucosia (la bianca) e Ligea (dalla voce melodiosa). Le Sirene disperate per essere state vinte da Ulisse,che ha resistito alla loro malia,si uccideranno per l’umiliazione della sconfitta.
Il corpo di Partenope, profetizza Cassandra, sarà portato dal mare lì dove si trovano la Rocca di Falero e il fiume Clanio: Falero è il nome di uno degli Argonauti partiti alla ricerca del Vello d’oro, considerato il mitico fondatore della città di Napoli e il Clanio era un fiume a nord della città famoso nell’antichità,ma oggi scomparso.
Il corpo di Leucosia approderà, invece, sulla spiaggia vicino Paestum, nei cui pressi si trova Punta Licosa, che prende nome dalla Sirena ed infine il corpo di Ligea sarà spinto dalla corrente marina fino a Terina vicino l’odierna Lamezia in Calabria.

Il geografo e storico greco Strabone racconta che è stato eretto in loro onore un tempio, il tempio delle Sirene, che, secondo recenti studi si sarebbe trovato sulla collina di Sant’Agata dei due Golfi, chiamata dagli antichi Mons Sirenanius, affacciato proprio di fronte alle Sirenuse.
Partenope verrà raccolta dagli abitanti di Falero, che ogni anno celebreranno feste in suo onore. Ma dove si trova la sua tomba? Non si sa: forse sull’isolotto di Megaride, a Castel dell’Ovo, dove sarebbe arrivato il suo corpo, oppure sul punto più alto della città antica, l’Acropoli ,situata a Sant’Aniello a Caponapoli sopra il Policlinico vecchio.
Secondo una leggenda il grande amore fra la Città e Partenope era nato quando la Sirena accarezzando le onde del mare allietava gli abitanti con la bellezza del suo canto.
Sette fanciulle in rappresentanza dei borghi di Napoli, per ringraziare la Sirena della gioia che trasmetteva la sua voce melodiosa, andarono verso il mare e le offrirono una cesta piena di farina, ricotta, uova, grano tenero bollito, acqua di fiori d’arancio, spezie e zucchero.
Partenope gradì l’offerta e portò il dono agli Dei, che mescolando tutti gli ingredienti con la loro divina sapienza crearono un dolce: la Pastiera. In ricordo delle 7 fanciulle e dei 7 prodotti regalati alla Sirena, a Napoli sulla pastiera si mettono 7 strisce di pasta incrociate. Fin qui la leggenda (dove potevano mai trovare allora le arance e lo zucchero?), la verità è che la pastiera è un dolce conventuale, come moltissimi della pasticceria napoletana, nato dalle esperte mani delle suore di San Gregorio Armeno.
In onore di Partenope dal 435 a.c. in poi si corsero le Lampadodromie: squadre di giovani si sfidavano in una corsa a staffetta, portando come testimone una torcia accesa che passavano al compagno: chi arrivava primo doveva avere la fiaccola ancora accesa altrimenti avrebbe vinto il secondo e così via, purché fosse ancora viva la fiamma.
Con l’arrivo del Cristianesimo la Partenope donna-uccello muore e dalle sue ceneri nasce la Partenope donna-pesce. La trasformazione forse è dovuta al fatto che le terribili e mostruose Sirene avevano le ali e quindi non dovevano essere confuse con gli Angeli messaggeri di pace e di protezione. Ma perché diventano pesci? Qualcuno dice che è dovuto ad un errore di un copista medievale che ha trascritto “pinnis” al posto di “pennis”cioè con le pinne invece che con le penne.

Ma Napoli non dimentica la sua Sirena e la rappresenta con due fontane:una Cinquecentesca e l’altra dell’Ottocento.
La prima si trova in via Guacci Nobile, una di quelle anonime strade fra l’Università e Piazza Nicola Amore, e si chiama la Fontana di Spina Corona più conosciuta dai napoletani come ‘A funtana de’Zizze, perché dalle mammelle della statua di Partenope, (rappresentata nella sua figura di donna- uccello, protettrice della città) sprizzano due getti d’acqua che spengono gli incendi provocati dall’eruzione del Vesuvio.
L’altra del 1869, più maestosa, invece, la raffigura come donna-pesce con la cetra in mano, circondata da animali e piante: in origine la fontana era situata nei giardini antistanti la vecchia Stazione Ferroviaria di Piazza Garibaldi prima di essere trasferita nel 1924 a Piazza Sannazaro a Mergellina.
A Partenope, oltre alla Via sul Lungomare più bello del mondo, è intitolata anche un’altra strada nella zona orientale della città, Corso Sirena nel quartiere Barra, che fino al 1925 era Comune autonomo prima di essere aggregato a Napoli ed aveva nel proprio stemma una Sirena con la testa sovrastata da una corona.

Sirena dalla voce soave ha fatto di Napoli una città di musica, balli e canzoni e Napoli la riconosce come Madre sua avendole lasciato in eredità l’amore per le note dolci e appassionate.
Ma Partenope è ancora viva e continua a cantare, oggi, grazie ad un progetto in collaborazione fra Università degli studi di Napoli, C.N.R., Museo Archeologico Nazionale di Napoli (MANN) ed altri che hanno creato, nell’ambito di un programma artistico-culturale più ampio, un progetto chiamato Sirena digitale, in cui un ologramma della Sirena canta due canzoni napoletane (Malafemmena e Reginella) anche in inglese e cinese mandarino. L’installazione è visibile proprio presso il MANN.
Partenope è Napoli e Napoli è Partenope: un corpo solo con due anime, noi siamo, come dice Totò, “ Parte-nopei e Parte-napoletani”.

Sergio Giaquinto, Giurista, già Dirigente Amministrativo dell’A.O. dei Colli, cultore di Storia e Archeologia