Un vecchio proverbio dice “Natale con i tuoi e Pasqua con chi vuoi”, ma quest’anno, per causa del virus, possiamo dimenticarci i viaggi, le gite e il weekend a casa degli amici, faremo Pasqua con i Nostri! Sarà l’occasione per ricordare quelle tradizioni pasquali, forse un po’rimosse dalla memoria, perché siamo stati distratti negli anni scorsi dalla voglia di evadere e di divertirci, e abbiamo dimenticato i riti e le abitudini di casa durante la Settimana Santa.
Si cominciava con la Domenica delle Palme, quando alla fine della messa si ritiravano le palme benedette, che poi non sono palme, ma ramoscelli d’ulivo: le Palme vogliono ricordare l’entrata di Cristo a Gerusalemme, che avvenne con lo sventolio dei rami da parte della folla, ma tali piante sono presenti soprattutto in Terra Santa, per cui con la diffusione del cristianesimo si pensò di sostituirle, come simbolo di pace, con gli ulivi che erano diffusi in tutta l’area del Mediterraneo. I ramoscelli d’ulivo venivano conservati per la benedizione di Pasqua dal Capo-famiglia, i cui figlioli si stavano, intanto, preparando a fare con la scuola il precetto pasquale: la comunione.
Durante il periodo della Quaresima c’era l’usanza che il sacerdote visitasse le case, accompagnato da un chierichetto per la benedizione: tutta la casa era stata messa in ordine ed il prete cominciava, recitando una preghiera, a girare tutte le stanze spruzzando dall’aspersorio l’acqua santa, invocando la benedizione di Dio su quella famiglia, mentre i presenti si facevano il segno della croce: alla fine della visita i fedeli facevano un’offerta per i bisogni della Parrocchia e regalavano caramelle o cioccolatini al chierichetto che era contento di aver accompagnato il prete proprio perché sapeva della dolce…ricompensa.
A Napoli, quando si parla di presepi, si pensa a Natale, alla grotta della Natività, ai pastori e a tante scene popolari, ma per quanto possa sembrare strano, come racconta lo studioso napoletano Paolo Izzo nel suo libro sul Presepe pasquale, esisteva un’altra specie di presepe, chiamato il Sepolcro a Personaggi, (da non confondere con i cosiddetti Sepolcri del Giovedì Santo), in cui attraverso le figure veniva rappresentata la storia di Gesù: dall’Annunciazione alla visita a Sant’Elisabetta, dall’Ultima Cena alla Crocifissione, una sequenza scenica che raccontava gli episodi più importanti del Vangelo da spiegare ai credenti.
Mentre nelle piazze, soprattutto intorno al XIII-XIV secolo, si tenevano manifestazioni sacre che ricordavano la Passione di Cristo, una devozione più raccolta si ebbe, più tardi, nelle Chiese e nei Monasteri in cui furono riprodotti con personaggi i momenti più sacri ed importanti della vita di Cristo. All’improvviso questa tradizione scomparve, forse perché nel ‘700 si volle dare più importanza al momento della Natività, rappresentato nel Presepe napoletano, ma qualche famiglia conserva ancora sotto la campana di vetro, per devozione, come presepe di Pasqua, la scena della Crocifissione. Nel sotterraneo della Chiesa di San Nicola alla Carità, a Via Toledo, accanto alle tradizionali scene di presepe napoletano, si possono ammirare anche scene di questo ”presepe di Pasqua” come l’Ultima Cena, i soldati romani, la deposizione, opera lavorata tanti anni fa dall’artigiano Giuseppe Russo.
E finalmente sta arrivando la Domenica di Pasqua e lo si capisce da quel venticello di primavera che riempie l’aria di profumo di fiori d’arancio: tutta Napoli sta preparando le pastiere!
Intanto inizia il triduo pasquale con la celebrazione dei riti del Giovedì Santo: questo giorno si distingue per due caratteri, uno religioso e l’altro popolare, il primo corrisponde al momento della Coena Domini, che rievoca l’Ultima Cena, il secondo a quello dello “Struscio”. La Cena del Signore è una messa del tardo pomeriggio durante la quale, al Gloria, le campane suonano a festa per poi essere “legate” per rispettare, con il silenzio, la morte di Cristo fino alla Gloria della veglia della notte del Sabato Santo, quando sciolti i legami saranno suonate a distesa per annunciare la Resurrezione. Dopo l’omelia comincia il rito della lavanda dei piedi di dodici fedeli numero pari a quello degli Apostoli: anche i Re e le Regine dei Borbone, a Palazzo Reale, lavavano simbolicamente i piedi a dodici vecchietti e a dodici suore di clausura, presente la Nobiltà in abito nero e velo le donne e in abito scuro e decorazioni gli uomini.
Finita la Messa i fedeli cominciano a fare quelli che a Napoli sono chiamati popolarmente ed erroneamente i Sepolcri, in quanto Cristo non è ancora morto. Si avvicinano all’altare e secondo la tradizione cominciano a recitare tre Ave, tre Pater e tre Gloria, un numero dispari che si ritrova anche nel numero di visite da fare al “Sepolcro”: tre, cinque, sette, ma mai pari. Probabilmente il numero tre è collegato alla Trinità e queste visite ai “Sepolcri” si fanno durante lo “Struscio”.
Questa tradizione risale al 1704, all’epoca del Vicereame spagnolo, quando per motivi d’ordine pubblico fu vietata la circolazione, durante la Settimana Santa, di carrozze, carrette e cavalli (successivamente il divieto fu limitato solo a Via Toledo). I Re Borbone andavano a piedi con la loro Corte a visitare le Chiese e allora i napoletani cominciarono a camminare, nell’isola pedonale di via Toledo, per fare anche loro i “Sepolcri”; la strada era affollatissima, si procedeva lentamente e quindi i piedi strusciavano per terra. La passeggiata era un’occasione per le fanciulle, per cercare marito, accompagnate da mammà; andavano su e giù per Toledo sperando di interessare qualche giovanotto: avevano comprato il vestito nuovo, si erano imbellettate e camminando strusciavano anche i vestiti delle altre donne.

Il piatto tipico che si mangia il Giovedì Santo a Napoli è quello cucinato con le cozze: si racconta che a Re Ferdinando IV piacesse molto mangiare e pur se si era in Quaresima non amava moderarsi, per cui il rispettato dominicano Padre Rocco lo convinse a essere più parco e allora Ferdinando, golosissimo di cozze, ordinò che gli servissero la Zuppa di cozze con pomodoro e olio di peperone piccante. Il popolo volle imitare il suo Sovrano e prese l’abitudine di mangiare la zuppa di cozze il Giovedì Santo.
Una volta erano proibiti tutti gli spettacoli durante tutto il periodo di Quaresima, che si caratterizzava per il color viola degli addobbi e poiché gli attori non potevano lavorare in quel periodo e quindi non guadagnavano, ecco spiegato perché il viola è considerato dai teatranti come un colore portasfortuna.
Negli anni del ’900 nel giorno del Venerdì Santo in cui era forte la presenza di uno spirito religioso, la radio e la televisione trasmettevano solo musica sinfonica o spettacoli teatrali a sfondo sacro come “I dialoghi delle Carmelitane” o la “Passione di Giovanna d’Arco”, oltre alla Via Crucis “in diretta dal Colosseo celebrata dal Pontefice”. I bambini non potevano giocare a pallone, perché come dicevano le mamme “c’è Gesù per terra” e allora ci si chiudeva in casa a leggere qualche libro.
Al Sabato Santo c’era l’abitudine di completare ‘O Canisto: il cesto pieno di pasta, salumi, formaggi ricotta ecc. Una volta per evitare di fare la spesa tutta insieme, per motivi economici, si prenotavano i canestri pasquali al salumiere, che dava ai suoi clienti una tessera con otto tagliandi, che venivano staccati, dietro pagamento, ogni sabato fino al saldo dell’ultima quota: era insomma un canestro comprato a rate. E con questo si iniziava a prepararsi per la Domenica.
Nell’Ottocento particolarmente importante era la festa di Pasqua che si svolgeva nel villaggio di Antignano al Vomero; come racconta Emmanuele Bidera nel suo Passeggiata per Napoli e contorni del 1844: “Il villaggio d’Antignano sul Vomero invitò Napoli sino dai tempi di Carlo d’Angiò a questa sacra popolare festività, e devota Napoli vi accorse sempre costantemente…”. Il popolo saliva dalla città i gradini del Petraio che dal Corso vanno verso Castel Sant’Elmo e si avviava poi verso Antignano, dove si svolgeva la festa campestre: si vendevano i sorbetti, le ciambelline zuccherate e le “conocchielle”, banderuole indorate e piccoli pennacchi confitti in un’asticella che le belle contadinelle infilavano nelle trecce. Il reggimento degli Svizzeri sostava nella piazzetta del villaggio dove migliaia di persone si schiacciavano una addosso all’altra, quando ecco che da lontano si sentono le due bande del Vomero e dell’Arenella che annunciano l’arrivo delle due processioni, una con la Madonna a lutto vestita di nero e l’altra con il Cristo Risorto ed ecco che Figlio e Madre si lanciano uno verso l’altra: il vestito nero cade per far apparire un’altra veste colorata segno di gioia fra lo scoppio di mortaretti. Questo evento nella piazzetta di Antignano si svolge ancora oggi nel giorno di Pasqua, ma è sospeso a causa della pandemia.
Ed adesso si è fatta l’ora di pranzo: le famiglie che erano uscite con l’abito della festa tornano a casa con la bottiglietta di acqua benedetta pronte a sedersi a tavola per iniziare un lungo pranzo, dopo quaranta giorni di sacrificio alimentare. Il Capofamiglia versa in una ciotolina l’acqua benedetta e prende il ramo di ulivo che aveva conservato dalla Domenica delle Palme, immergendolo nell’acqua, e comincia a benedire, spruzzandola sulla testa dei propri cari, accompagnandola con un augurio e con una particolare raccomandazione per il familiare più scugnizzo. Il pranzo sta per cominciare, quando qualcuno fa notare al capo-famiglia, che da sotto il suo piatto spunta qualcosa: questi, fingendo la sorpresa, alza il piatto e trova una letterina in cui un figlioletto fa gli auguri alla famiglia e promette di essere più buono e più bravo. Il papà commosso gli regala un po’ di soldi.

Finalmente comincia il pranzo, secondo tradizione, con un antipasto di uova sode leggermente colorate con sostanze naturali che accompagnano la “fellata”, un misto di fette di salame, capocollo, prosciutto, e poi la ricotta salata, seguita da una menestella con verdure fresche in brodo di carne di manzo e di gallina con un poco di salame piccante (in alternativa una crostata di tagliolini). Si continua con l’agnello (o il capretto) al forno con i piselli e le patate e ancora i carciofi arrostiti o lessi, mentre sulla tavola, per gli stomaci forti, trionfano Tortani (con l’uovo sodo all’interno dell’impasto) e Casatielli che, invece, hanno le uova sode intere messe sopra. Alla fine, alla faccia della colomba industriale, arriva sua Maestà la Pastiera, secondo la ricetta della nonna e mentre si discute se è più buona quella con il grano intero o quella con il grano passato, i bambini con un pugno rompono le uova di cioccolato per trovare la “sorpresa”.
La festa è finita, per domani era prevista la Pasquetta sull’erba con la frittata di maccheroni e pane cotoletta, pazienza, siamo costretti a rimandare all’anno prossimo, staremo tutti meglio e la frittata e la cotoletta ci sembreranno le migliori mai mangiate.

Sergio Giaquinto, Giurista, già Dirigente Amministrativo dell’A.O. dei Colli, cultore di Storia e Archeologia