PASSANO ‘E JUORNE SENZA CHE CE N’ACCURGIMMO…
Questo è uno dei tanti detti che fanno riflettere sul tempo che vola senza che ce ne accorgiamo, richiamando alla mente il bel verso di Leopardi …e intanto fugge questo reo tempo e van con lui le torme delle cure, onde meco agli si strugge.
E con i versi ritornano alla mente i ricordi di un tempo. Ricordi vividi, tanti. Sbiaditi… alcuni.
Il mio occhio è stato sempre affascinato dalla maestosità dei monti, delle valli, del mare, da me ritenuti quel Paradiso Perduto dov’era più facile colloquiare con il Creatore.
In tale vasto e polifonico mondo di bellezze, ricco d’infiniti mutevoli aspetti, e di tutto il fervore e il mistero della vita, ho avuto modo di meditare, con accenti di desolato pessimismo, sull’inerte assoluta indifferenza della natura maestosa, eterna, per le sorti dell’uomo.

E mentre oggi s’impreca su tutto e tutti, e un linguaggio standardizzato e uniforme pretende di assurgere a neolingua in grado di dettare comportamenti, imporre stili di vita, regole, tanti diritti e pochi obblighi, io a dire il vero mi compiaccio perché, cercando di vivere e pensare fuori dal coro, mi sono sempre sforzato di rendere grazie per una bella aurora, una pioggia feconda, gli uccelli che cantano, le stelle, un bel sonno ristoratore o un amore nascente, e dicendo grazie alla Terra nostra madre ho elevato un inno alla Vita, il mio personale inno di libertà.
Ho così compreso perché le civiltà indiane d’America che abitarono le sconfinate praterie preferirono scomparire piuttosto che vivere altrove, e perché i nomadi mongoli, in quelle steppe asiatiche che sempre mi hanno affascinato, erano fieri di definirsi figli del vento.
Ho conosciuto l’estasi dolce del crepuscolo, quando il giorno cede alla notte e chiunque voglia contemplare il paesaggio non può non sentirsi stringere il cuore come quando si avverte un freddo improvviso e ci si copre stringendosi su se stessi alla ricerca di tranquillità.
Ogni volta che ho visto tramontare il sole sull’orizzonte lontano come una corolla appassita, ho pensato alla nostra povera vita, che proprio come una corolla bagnata dalle lacrime d’ignote rugiade cade per mai più ritornare.
Quante ne ho viste, di queste corolle cadute… tante… troppe!
Forse sono stato e sono un eterno ammalato di saudade, parola speciale con la quale i portoghesi sintetizzano la loro malinconica natura fatta di quella nostalgia che un po’ prostra e un po’ lascia vivere di speranze.
E ora, ora quell’unico albero antico circondato da pochi palmizi, che si erge maestoso nell’unico spazio verde visibile dal balcone del mio studio, mi attrae per l’oro che al tramonto traspare attraverso i suoi rami. Mi affascina, m’intenerisce.
E le ombre fugaci del rapido volo degli uccelli che si spostano tra il fogliame mi richiamano alla mente panorami selvaggi, quelli visti, e quelli mai visti ma sempre sognati e desiderati. Ricordi di luoghi effettivamente contemplati, e memorie di epoche non vissute ma apprese e desiderate. Ricordi di giorni trascorsi nell’innocenza della fanciullezza e nella giovinezza in parte spensierata ma mai felice, quando ho imparato a esser consapevole sia del vero dolore che della vera gioia.
Paesaggi dell’anima, mentre ancora si consumano i giorni…Traditur dies die… come scrive Orazio nei suoi stupendi Carmi.

Michele Chiodi, già dirigente di istituti finanziari, collabora con periodici e associazioni culturali