Pelle di capitone
In una fredda ma bella giornata di Dicembre, con quell’eccitante aria di Natale alle porte e frenetiche folle di persone a caccia di regali e di alimenti per i pranzi e le cene delle imminenti festività, mi ritrovo camminando per una stradina del vecchio Vomero ancora piena di botteghe e piccoli negozi, diversi dalle scintillanti boutique di questo quartiere che lo connotano come uno dei principali centri commerciali della città di Napoli.
Antignano, infatti, è il nucleo dell’antico casale chiamato Paturcium in epoca romana e poi Vomero in epoca recente, forse per le gare di aratro disputate dai contadini sulle alture alle spalle del divino golfo partenopeo.
La strada ripercorre l’antico tracciato della via Antiniana o “ per colles ” che anticamente metteva in comunicazione la città di Napoli con Puteoli (Pozzuoli) passando per il cratere spento di Agnano, da cui forse il nome, discendendo dall’altro versante attraverso quelle che oggi sono via Conte della Cerra e via Salvator Rosa verso il centro cittadino.
E’ questa anche la via che nel 413 DC percorse il corteo che traslava le reliquie di San Gennaro dal luogo di prima sepoltura nell’agro Marciano alle catacombe napoletane inferiori poi intitolate al Santo Patrono della città. Un profumo di antico e di sacro si respira in questa parte di mondo, dimenticata e cancellata dalla frenesia odierna dei motori e dei passanti frettolosi e dalle moderne costruzioni che ne hanno cambiato in molte parti l’originario aspetto anche se, a ben leggere il territorio, si riconoscono le rovine di antiche ville e casali perduti nel tempo.
Questo è anche un luogo letterario, se si pensa alla villa quattrocentesca di Giovanni Pontano che qui sorgeva col nome di Arcadia, ricordata da una solitaria piccola lapide sopra l’entrata di un diruto palazzo, già sede dell’Accademia Pontaniana frequentata dal grande Jacopo Sannazzaro. Ed è anche qui, luogo dell’anima, che il poeta Salvatore Di Giacomo portava la sua amata dedicandole gli imperituri versi di ” Na tavernella ncopp’ Antignano ”, con la sottile aria che viene “ a coppa ‘e monte ”, il cane del trattore che abbaia e l’estatico stupore amoroso della coppia fra tanta bellezza e armonia. Napoli stupisce per questi luoghi, diversi e antichi, moderni ma tuttavia romantici. Inconsapevolmente romantici anche per frettolosi passanti.
Queste ed altre cose andavo considerando fra me e me percorrendo via Belvedere, un tempo via Antiniana, in una fredda ma soleggiata mattina di Dicembre.
Poi, una pittoresca scena cattura la mia attenzione, distogliendomi improvvisamente dai miei pensieri. Una scena familiare ma sempre nuova, bellissima e crudele, dipinta mille volte nei quadri del vedutismo napoletano e vista mille volte dal vivo nei quartieri di Napoli.
Ho davanti a me una pescheria affollata da compratori esigenti ed impazienti nell’accaparrarsi i migliori pesci per l’imminente banchetto, vocianti come i pescivendoli calzati con stivaletti di gomma, guizzanti fra bilancia e banchetti di pescato scintillante, come nelle nature morte di Giuseppe Recco. Sulla strada poi c’è una piccola barca bianca e azzurra, piena d’acqua agitata da una massa di allungate forme scure dai frenetici movimenti serpentini: la vasca dei capitoni ! Mi avvicino alla scena ed in quel momento un pescivendolo tuffa una mano nella matassa vivente e ne estrae un lungo capitone per poterlo tagliare a pezzi con la piccola mannaia che stringe nell’altra mano.
Il capitone però gli sguscia di mano, protetto dalla sua pelle viscida, costringendo l’uomo a più prese prima di poter aver ragione dell’animale, che anche dopo essere stato cruentemente sezionato, continua a sfuggire alla presa.

Mi viene subito in mente quella metafora partenopea che indica nell’avere la “ pelle ‘e capitone “ l’antidoto alle sofferenze non solo fisiche, ma soprattutto psichiche che le avversità della vita comportano sull’equilibrio mentale dell’essere umano. Non si tratta di indifferenza o di arrogante strafottenza circa gli eventi avversi, ma di una civile ed innocua strategia per non perdere la giusta misura di reazione ad essi e vivere nonostante. Una sorta di attendismo, una pratica di filosofia Zen in salsa napoletana: primum vivere, deinde filosofari. Antica scienza di sopravvivenza, una scienza dell’anima che nessun farmaco psichiatrico riesce ad eguagliare.
Come non pensare alle misure liberticide generate dalla narrazione scellerata di recenti, naturali e tragici eventi della storia evolutiva delle specie sulla Terra, impegnate nella lotta di trasformazione per l’adattamento alle continue, eterne mutazioni cosmiche e nulla più. Non eventi eccezionali né tantomeno una delle piaghe d’Egitto inviate da Dei vendicativi, non “fuori di noi” ma “dentro di noi”, quando guardiamo tutto ciò con gli occhi della ragione e della scienza, che non conosciamo davvero ma ci sforziamo di comprendere. Elusiva e mutevole realtà, danza eterna di molecole sull’orizzonte degli eventi, come quella di maestri Wu Li alla ricerca del karma.
L’aria avvelenata generata nella società umana da questa costruzione angosciante contrasta con quest’aria tersa che respiro in questo momento, fra pensieri, suoni e voci della vita che scorre libera nell’incanto di questa soleggiata e fredda mattina.
Me ne riempio i polmoni, indosso sorridendo fra me la mia pelle di capitone, guardo lontano oltre il mare il profilo azzurrino della Penisola Sorrentina, trafitta dal sole. Mi sento sicuro e felice, attento nella mia percezione della vita, immune dalla profonda tristezza che prova inutilmente ad invadermi l’anima, grato di questi doni, questi sì di un Dio sopra di noi, qualunque cosa esso sia.
E la città della Sirena guarda ineffabile tutti noi dall’alto e ci protegge, col suo eterno sorriso.

Antonio Di Giacomo già responsabile UOS Ematologia e Immunologia Cellulare AO dei Colli,
lecturer per Università di Jacksonville, USA, presso Istituto S. Anna di Sorrento
cultore di storia antica e mitologia della Campania, socio della Vergilian Society di studi classici