Da bambino una volta scavai sul lato della Casella che guardava ad oriente, accosto al «capannaccio» che aveva le pareti fatte con tavole di quercia, un fosso largo e profondo e vi seminai semi di olive «salate all’acqua». Penso con indulgenza a quel bambino ed alla sua ingenuità; a primavera mi «vutravo» per terra sui prati verdi come facevano gli asini sulle strade impolverate; le formiche sul lastricato della casa nuova alla Casella erano impegnate in una esplorazione che in apparenza non aveva senso; e le immaginavo intese a costruire rampe di lancio per missili in miniatura e fantasticavo il fallimento dell’impresa al battito d’ali di farfalle.
Ora ho svuotato la mia credenza. V’è rimasto, come in quella di nonno alla Casella, solo pane raffermo con pezze toste di cacio ed olive salate rinsecchite. Nonno, dopo aver annaffiato la piantina di agrume selvatico nato spontaneamente in un invaso della panchina in muratura addossata alla casa, tornò al pozzo e guardò il paese arroccato sulla faglia e diresse il bastone verso lo sperone dell’Aspro che nascondeva alla vista il cimitero. «Alla mia età conviene credere»: così disse mio padre, quando aveva la mia età.
Già nel paleolitico gli uomini cominciarono a deporre oggetti d’uso quotidiano accanto ai loro morti. Forse era già nata, allora, la concezione che non tutto finisse con la morte. I Sumèri immaginarono l’aldilà come un luogo di polvere dal quale non era concesso il ritorno e nel quale i morti vivevano delle offerte fatte dai vivi: chi aveva un figlio si evitava il pane d’argilla e l’acqua putrida e gli stavano bene il pane raffermo, le olive rinsecchite e l’acqua dell’otre; chi invece aveva sette figli sedeva su un trono ed ascoltava musica. Poi furono elaborate le teorie della reincarnazione e della retribuzione, grandi pietre, come quelle emergenti nel letto del torrente, lì, alla Casella, che promettevano l’altra sponda tra le pozze d’acqua a maggio popolate di girini.
Sull’altopiano di «Vallaura», dove la cornice dei monti ad occidente nasconde il mare di Gaeta, tutte le acque meteoriche vengono convogliate in una fossa carsica e di lì un percorso buio le riporta alla luce della «Mola Salomona»; lo «sheol», la «fossa», così si chiama il luogo dei morti nell’Antico Testamento; e poi lo chiamarono anche «bruciatoio», perché invece delle sterpaglie vi venivano immolati al vecchio dio Moloch i bambini fatti passare per il fuoco. E nei periodi di carestia venivano sotterrate vive le bimbe. E sono passati pochi decenni da quando ai maschi veniva dato il pane di grano ed alle femmine il pane di granturco.

Una casa a picco sul mare sferzata dai maestrali d’inverno e picchiata dal sole d’estate con albe e tramonti ai due orizzonti e senza la pomeridiana depressione ed un entroterra all’«arremoto» con giardini di agrumi ed olivi e viali fioriti di narcisi a primavera e di ginestre a giugno e melograne d’autunno sui rami pendenti, con le oche guardiane di casa e ruscelli risonanti sulle scogliere di tufo rivolte all’occidente. Se ci fosse un’altra volta, con i Padri e con i figli ed i figli dei figli… Tutti con me…! Anche così dissi quel giorno che vidi la casa degli antenati «scarrubata» alle Fontanelle: tutti con me alla Casella!

Domenico Casale, cardiochirurgo di professione e contadino per passione, esperto di mitologia e testi sacri multiculturali, scrittore