Abbiamo incontrato Massimo Innamorato, algologo direttore e coordinatore della Terapia del dolore dell’ASL Romagna, che opera in prevalenza nelle città di Ravenna e Rimini, con copertura anche a Cesena e Forlì, a cui abbiamo chiesto di parlarci dello scenario italiano.
Dottore, parlando di terapia del dolore interventistica, di tecniche mini invasive, in Romagna dove sono effettuate?
Prevalentemente all’ospedale di Ravenna, con l’80% circa degli interventi, e 20% Rimini.
Qual è la reazione dei pazienti quando viene proposta la terapia interventistica?
Quando siamo partiti, nel 2013, gli stimolatori erano impiantati pochissimo; parliamo di una ventina l’anno, in una popolazione di 1.2 milioni di abitanti. Attualmente siamo passati a circa 80 ogni anno, su un centinaio di pazienti che visitiamo e valutiamo idonei. Recentemente si è avuta un’evoluzione delle patologie vascolari: diabete, piede diabetico, piede vasculopatico, ne stiamo trattando moltissimi…
Con quali risultati?
Buoni, su piede diabetico e vasculopatia circa il 90% di casi è positivo. Se si pensa che un piede diabetico amputato costa alla Regione in tre anni 60 mila euro, mentre uno stimolatore midollare a basso costo ne costa 6 mila, il risparmio in termini economici è molto significativo; inoltre la qualità della vita con queste tecniche è decisamente spettacolare rispetto all’amputazione. Non dovremmo parlare di terapia del dolore, ma di medicina di terapia del dolore, in quanto ormai il dolore è una patologia a tutto tondo non facile da trattare. Non basta intervenire solo con tecniche, è una disciplina che ha bisogno del supporto dello psicologo, di collaborazione con il caregiver familiare, i nostri sono pazienti molto complessi, e tutta la parte emotiva, la depressione, non sono marginali nel combattere il dolore.
Nei vostri ambulatori dedicati, ci sono anche psicologi?
Sì, da quest’anno abbiamo 12 ore di terapia psicologica settimanale per le patologie complesse, cioè per pazienti che hanno un dolore cronico evolutivo, che spero di estendere poi a tutti. Noi algologi siamo tutti anestesisti, e non abbiamo gli strumenti adatti; nel tempo abbiamo sviluppato una sensibilità maggiore, ma abbiamo bisogno di essere condotti e assistiti da colleghi che si occupano di questo,
Ci sono reazioni standardizzate dei pazienti, per esempio alcune reazioni tipiche per il paziente oncologico con dolore cronico e per quello non oncologico?
Sì, paradossalmente il paziente oncologico affronta meglio, più in positivo il dolore: è reattivo, accetta la proposta terapeutica più di buon grado; il paziente non oncologico invece arriva da noi con richiesta di una terapia risolutiva per guarire da una malattia che non conosce e che ha da tempo. Io propongo di fare un patto: lo accetto nella nostra famiglia, ma si deve fidare, abbiamo bisogno di tempo, di mesi per intraprendere un percorso. Alcuni lo accettano e restano, altri vanno via, perché vogliono subito la risposta, ma sono patologie complesse e noi non siamo in grado di darla immediatamente.
Una tecnica mini invasiva o invasiva, rispetto alla terapia farmacologica come viene accettata?
Quando proponiamo ai pazienti tecniche mini invasive diciamo che sono effettuate in sala operatoria e la prima reazione del paziente è chiedere il perché, come mai. Noi spieghiamo che è per la loro sicurezza, per una corretta gestione, che si tratta in molti casi di trascorrere solo poche ore in DH.
Se dobbiamo eseguire interventi mini invasivi per patologie fortemente destruenti, lombari, artrosiche, stenosi del canale midollare, concordiamo col neurochirurgo di proporre in prima battuta la tecnica e solo successivamente il collega propone quella chirurgica classica. La cosa strana è che il paziente preferisce frequentemente l’intervento neurochirurgico, anche demolitivo, piuttosto che avere un approccio neuromodulativo. Noi impiantiamo un elettrocatetere e poi una batteria sotto pelle che possono consentire una qualità di vita decorosa per molti anni, ma il paziente molte volte risponde: No, preferisco essere operato e poi valutiamo… è strano, sembra una resistenza culturale, psicologica.
Cosa pensa accadrà in futuro?
I servizi di medicina e terapia del dolore, come mi piace definirla, sono ancora pochi in Italia. Quelli con un primario e un’equipe medico-infermieristica si possono contare sulle dita di due mani; sono troppo pochi. Purtroppo questi sevizi sono spesso allocati nei reparti di Anestesia e Rianimazione e, con gli impegni quotidiani, un anestesista dovrebbe trovare il tempo per dedicarsi anche a questo per poche ore alla settimana al dolore. Chi fa questo lavoro dovrebbe fare solo questo.
Quindi bisognerebbe inserire un insegnamento solo per terapia del dolore?
Assolutamente sì.È ancora in fase embrionale, si comincia adesso. Io sono tutor degli specializzandi di Bologna e di Ferrara e abbiamo alcune ore, poche ancora, e loro, se interessati, poi si iscrivono a un master dopo la specialità. Fare l’algologo richiede diversi anni, non sei mesi, per cui sarebbe opportuno prepararsi prima, e non dopo
Il fatto che il terapista del dolore sia chirurgo e clinico contemporaneamente, incide sul trattamento del paziente? Mi riferisco ad alcune patologie in particolare, come ad esempio la fibromialgia, non necessita di un approccio più clinico?
Certo. Nella fibromialgia l’approccio clinico rappresenta il 90% e quello invasivo il 10%, a differenza di altre patologie in cui il rapporto è inverso. La fibromialgia è una patologia multifattoriale e multidistrettuale, spesso con un’artropatia e una mialgia che si mescolano fra loro con una componente centrale importante, ed è difficile da trattare. Non è possibile riconoscere il fibromialgico con esami specifici, lo fai clinicamente. E quindi l’eziopatogenesi e la valutazione clinica sono fondamentali, e richiedono molto tempo, lavorando in collaborazione con i reumatologi, i neurologi e con gli psicologi.
Questi team multidisciplinari funzionano? Ce ne sono in Italia?
Sì, dove applicato, il team funziona. Come medico del servizio pubblico, ho sempre sostenuto l’importanza della trasmissione della conoscenza, dell’osmosi del sapere. Un team con specialità diverse rappresenta un valore aggiunto, perché si integrano le diverse competenze.
Il dolore cronico non oncologico, secondo ricerche recenti, affligge un italiano su cinque nel corso della vita, con risvolti sociali, economici e di qualità di vita significativi. Non siete un po’ pochi rispetto alla domanda?
Assolutamente sì. Siamo davvero pochi e non saremo mai sufficienti. La soluzione è coinvolgere i medici di prima linea, i medici di base, che potrebbero fare un primo intervento. Negli studi dei medici di famiglia e nei pronto soccorso, ad esempio, la lombalgia si riscontra con una percentuale di oltre il 40%, riguarda quasi un paziente su due. Se facciamo un patto corretto con chi li visita, formando anche medici di medicina generale, ortopedici, neurologi e altri possiamo gestire poi il dolore in maniera più efficace rispetto alla scarsa numerosità degli algologi nel nostro paese.
Ultimamente si parla sempre più spesso di nevralgia del pudendo. Da cosa dipende?
È collegato anche all’infodemia in campo medico disponibile in internet?
Sì, c’è la tendenza diffusa del paziente di presentarsi al primo accesso con un’autodiagnosi. Già vari anni fa mi è capitato con la fibromialgia: il paziente veniva da noi e ci diceva: sono fibromialgico, ho letto su internet i sintomi che ho anche io. Ora alcuni pazienti lo fanno con la nevralgia del pudendo: ti descrivono i sintomi studiando il passaggio dei nervi e la parte muscolare e, in base alla loro diagnosi, ti chiedono la terapia con infiltrazioni o altro. Così diventa problematica la gestione del paziente, che va ricondotto alla vera patologia di cui soffre, che a volte può essere nevralgia del pudendo ma in altri casi sono patologie pelviche, artrosiche alle faccette articolari, all’articolazione sacroiliaca artrosica eccetera.

Carlo Negri, esperto di marketing farmaceutico e comunicazione in Sanità.