Prima o poi capita a tutti. Non sappiamo quando né ci pensiamo, ma succederà. Che sia il nonno, la moglie, il marito o altra persona cara poco importa. Ci troveremo catapultati nel mestiere di caregiver improvvisamente, senza alcuna preparazione, a causa di una malattia, di un evento traumatico che ha colpito chi amiamo.
Caregiver è una parola che abbiamo sentito più volte nel processo di cura. In italiano, è la persona che dona cure a un paziente, nella delicata fase di vita che sta affrontando, spesso senza sosta.

Tecnicamente la categoria è formata da due tipologie di figure: i caregiver professionali, cioè gli operatori retribuiti per fornire assistenza, come OSS e badanti, e i caregiver informali, prevalentemente familiari o, in alcuni casi, amici o volontari, che assistono il malato senza badare al tempo, e a titolo gratuito. Di questa seconda categoria, si stima che 6 caregiver su 10 siano donne.
Nell’indagine ISTAT Condizioni di salute e ricorso ai servizi sanitari in Italia e nell’Unione Europea, del 2015, è riportato che in Italia sono circa 8 milioni e mezzo le persone che si prendono cura di chi ha bisogno di assistenza, più del 17% della popolazione. Di questi, solo 900.000 sono caregiver professionali, mentre i restanti 7,3 milioni sono caregiver informali. Secondo l’ISTAT, in maggioranza sono di un’età compresa fra i 45 e i 64 anni e, uno su quattro, si dedica alla persona malata per più di 20 ore a settimana.
Nei tempi recenti, sempre più aziende farmaceutiche stanno dedicando attenzioni al paziente non solo a livello terapeutico, ma anche sulla qualità di vita del cosiddetto patient journey, il viaggio della persona dal momento in cui insorge una malattia.
Si tende, quindi, a lavorare sia in ambito puramente medico-scientifico, che in quello psicologico per far sì che il tempo scorra in modo più sereno durante il percorso di cura, in ospedale o a casa, stimolando reazioni positive e non pessimistiche e depressive.
Di contro, la pandemia che stiamo vivendo da ormai un anno certo non facilita un atteggiamento proattivo per la persona ospedalizzata, isolata in un letto di un reparto, senza il conforto di familiari e amici, negli orari di visita permessi. Ciò che resta – per chi può – è il contatto virtuale tramite smart phones, telefonate, chat e videochiamate.
Medici, infermieri e sanitari tutti si stanno impegnando molto in questo periodo nell’applicare le Medical Humanities per creare una relazione empatica e accudente con i pazienti e colmare il gap dovuto all’isolamento.

Poco viene fatto per i familiari, i caregivers informali più numerosi, relegati nelle loro case in attesa di poter parlare telefonicamente con un medico per gli aggiornamenti sulla patologia dei loro cari.
Questa situazione inusuale è stata decisamente amplificata dal Covid, ma il difficile ruolo del caregiver ha origini ben più antiche.
Quando una persona scopre di avere una malattia, quale che sia, frequentemente manifesta un atteggiamento di negazione della stessa. Alla visita col medico, con i primi accertamenti eseguiti, di solito accompagnato da un familiare, il paziente tende a non ascoltare con attenzione le parole del curante: diagnosi, terapia, prognosi sono recepiti in modo frammentario, confusionale, a causa dello stato emotivo che sta vivendo.
Ecco che l’aspetto razionale, la comprensione non sempre facile delle parole del sanitario ricadono a carico del familiare, già diventato caregiver che, anche se emotivamente provato, preoccupato, deve mantenere un comportamento lucido cercando di immagazzinare tutte le informazioni che vengono trasmesse durante il colloquio.
E questo è solo il primo step. Sì, perché da quel momento inizia un altro viaggio parallelo: il caregiver journey, vissuto con angoscia e timore, sentimenti che non possono essere manifestati, in quanto il ruolo da interpretare è sempre quello di persona ottimista, forte, inossidabile, che deve trasmettere positività al proprio caro, rassicurarlo, accudirlo, reperire i farmaci, somministrare le terapie orali, calendarizzare visite mediche e analisi, trasformarsi improvvisamente in infermiere, psicologo, OSS, badante, cuoco… non tralasciando mai, però, gli impegni lavorativi e familiari, gli altri membri a cui badare.
Chi ha già vissuto questa esperienza sa bene quanto sia difficile tutto questo, quanto sia brutto mentire al proprio caro che chiede parole di conforto, quando si sa che la situazione è critica, difficile, lunga.
Ciò che manca tutt’oggi è un supporto psicologico per il caregiver, una formazione di base che insegni come creare una relazione d’aiuto efficace senza finire in burnout, come rapportarsi coi medici, come reagire in modo corretto all’insorgere di un effetto collaterale, al dolore fisico e psicologico della persona amata.

Sotto l’aspetto sanitario, tale formazione si rende ancora più necessaria per contrastare la ricerca di informazioni più dettagliate tramite Dr. Google e siti medici a volte poco affidabili, o anche ottenute nel parlare con persone che spesso ostentano certezze e competenze inesistenti, in base a proprie esperienze vissute da caregiver di un paziente affetto dalla stessa patologia che, oltre ad alimentare dubbi e false speranze, irritano molto i medici quando ci si rapporta quasi come un collega, in quanto …ho letto su facebook che c’è una nuova terapia… che questo o quell’integratore è miracoloso… mi hanno detto che…
Ognuno ha una professione e il tempo è una risorsa importante, che non va sprecata creando tensioni. Il percorso di cura può essere complesso e bisogna cercare di assistere il paziente ciascuno con le proprie competenze e peculiarità, rispettando i ruoli. La speranza è che, nel prossimo futuro, più attenzione sia dedicata al caregiver informale, altro attore protagonista nel percorso di cura di ogni paziente, che va formato e sostenuto in un’attività in cui non è preparato ad affrontare e che provoca – molto spesso – grande sofferenza.

Carlo Negri, esperto di marketing farmaceutico e comunicazione in Sanità